L'illusione finanziaria. La lezione del gesuita Gaël Giraud.
L'illusione finanziaria. La lezione del gesuita Gaël Giraud.
Gaël Giraud, gesuita, docente di
economia matematica all’Università Sorbona di Parigi, ha tenuto una
interessante conferenza a Brescia, il 23 ottobre, sulla “Illusione
finanziaria”, cioè sulla crisi globale e le disuguaglianze prodotte da
un sistema finanziario privo di regole. L’incontro è stato promosso
dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura (rete c3dem),
l’Accademia Cattolica di Brescia e l’Università Cattolica sede di
Brescia.
L’illusione finanziaria
Ringrazio don Giacomo Canobbio e gli
organizzatori per l’invito. È una gioia e un onore per me potermi
esprimere qui e discutere con voi. Vi parlerò come economista, come
cittadino europeo e come gesuita.
Parlerò come Economista,
perché gli argomenti che evocheremo (il crash finanziario, la
deregolamentazione finanziaria, la crisi del debito pubblico) sono
innanzitutto delle questioni di economia, a cui bisogna tentare di
rispondere, identificando con serenità i punti problematici, senza
pregiudizi politici.
Parlerò come Cittadino europeo,
perché credo che l’Italia sia in una brutta situazione, come la
Francia. I francesi e gli italiani avrebbero molto da guadagnare se
cercassero insieme delle soluzioni all’impasse.
Parlerò come Gesuita, perché credo che il futuro dell’Europa sia in gioco: e il futuro dell’Europa non può lasciare i cristiani indifferenti.
Mi concentrerò su tre punti:
1) Dirò qualche parola sulla
regolamentazione dei mercati finanziari. Essenzialmente, per dirvi che
penso si sia fatto molto poco per regolamentare meglio i mercati
finanziari. A tal punto che la situazione mi sembra almeno tanto
pericolosa oggi quanto lo era nella primavera del 2007.
2) Accennerò brevemente alla crisi del
debito pubblico, al ruolo delle politiche di austerità, e alla crisi del
progetto dell’euro.
3) Infine, vi proporrò qualche
riflessione personale su ciò che una tale crisi della finanza e
dell’euro significa sul piano spirituale. Dal 2007 molte persone hanno
chiesto una moralizzazione del capitalismo, un raddrizzamento morale,
per esempio da parte dei manager delle grandi istituzioni finanziarie.
Ma credo che una morale individuale, anche se indispensabile, non sia
sufficiente: dobbiamo andare oltre. Giovanni Paolo II ha parlato, in un
altro contesto, di “peccato strutturale”. Io oggi vorrei porre l’accento
sulla struttura di peccato che soggiace alla maniera in cui
organizziamo il nostro rapporto con la moneta ed il credito.
1. A che punto siamo per quanto riguarda la regolamentazione finanziaria?
Bisogna distinguere due ambiti,
distinti ma correlati: la regolamentazione dei mercati finanziari e i
loro prodotti, da una parte; e la regolamentazione del settore bancario,
dall’altra. Vediamoli uno alla volta.
1.1 I mercati finanziari sono ancora troppo poco regolamentati
Bisogna innanzitutto ripetere quanto la
finanza senza regole si sia negli ultimi trent’anni allontanata dalla
sua funzione originaria, che è quella di fornire liquidità e protezione
all’economia reale.
I prodotti derivati (swaps, options, etc.),
sviluppati negli anni Settanta, erano inizialmente destinati a
proteggere gli industriali contro i rischi ben definiti (il rischio del
cambio, del tasso d’interesse), ma sono stati utilizzati e sviluppati a
fini di pura speculazione. Non conosco nessuna dimostrazione teorica
convincente dell’efficacia dei mercati. Anche la teoria più favorevole
ai mercati, quella dell’equilibrio economico generale, dice che i
mercati sono quasi sempre inefficaci, e sottomessi a delle anticipazioni
auto-realizzanti, che possono essere completamente sconnesse dalla
realtà. In tali condizioni non è possibile pretendere onestamente che la
speculazione sia un male a fine di un bene più grande: non abbiamo
nessuna prova teorica del fatto che la speculazione favorisca una
migliore allocazione del rischio e del capitale. Al contrario, abbiamo
molte prove empiriche del fatto che essa tende a provocare un crash
finanziario ogni quattro anni in media.
Gli hedge found,
apparsi agli inizi degli anni Novanta, dovevano proteggere gli
investitori contro le fluttuazioni del mercato. Sono diventati invece
fondi ad altissimo rischio, che evitano ogni regolamentazione e che,
sebbene molto colpiti dal crash del 2007/2009, sono ridiventati, oggi,
dei giganti finanziari. Il fatto che possano lavorare nell’ombra (quello
che oggi si chiama lo shadow banking) li rende particolarmente
pericolosi perché le autorità di supervisione e di regolamentazione
hanno troppo poche informazioni sui loro movimenti.
Nel 2009, le banche hanno cercato di
difendersi dalle accuse del grande pubblico, dicendo: “Non gettate su di
noi la colpa: noi siamo fortemente regolamentati. Il vero casinò
finanziario non sono le banche, ma gli hedge found.” Ed è vero. Ma i banchieri hanno spesso dimenticato di aggiungere che esistono stretti legami tra traders degli uffici titoli di una banca e quelli che operano negli hedge founds.
D’altro canto, questi fondi di speculazione riescono a lanciarsi in
operazioni con un forte effetto leva, solo perché possono prendere a
prestito considerevoli somme dai loro colleghi rimasti nelle banche. Il
che vuol dire che la “finanza ombra” non esisterebbe senza la complicità
attiva della finanza che lavora alla luce.
Oggi, lo shadow banking
rappresenta ancora più della metà delle transazioni negli Stati Uniti, e
più di un terzo in Europa. E nulla è stato realmente fatto per
regolamentarlo.
Gli operatori finanziari sono stati autorizzati nel corso degli anni Novanta a operare anche sui mercati delle materie prime.
La banca d’affari Goldman Sachs ha esercitato una lobby molto forte
sull’amministrazione americana per ottenere il diritto di accedere a un
mercato che, fino ad allora, era riservato ai soli professionisti delle
materie prime (imprese petrolifere e del gas, società agricole , ecc.).
Oggi gli operatori finanziari hanno letteralmente preso il controllo dei
mercati delle materie prime. Il prezzo del petrolio o del riso non è
più determinato dall’offerta e dalla domanda di petrolio o di riso, ma
dai movimenti di capitali sui mercati di derivati finanziari sul
petrolio o il riso. I derivati sul petrolio pesano trenta volte più che
il mercato di petrolio fisico. E quando una banca come Goldman Sachs
interviene sul mercato dei futures sul riso, non è per lottare
contro la carestia, ma per speculare. L’autorizzazione data alle banche
per intervenire su questi mercati è nata dall’idea che queste banche
potessero portare della liquidità ai mercati di materie prime. A mio
parere si tratta di un’illusione: gli speculatori non garantiscono mai
veramente la liquidità di un mercato. In effetti, scambiano sul mercato
solo finché va tutto bene. Appena iniziano i problemi, questi
speculatori si ritirano molto velocemente per evitare di avere delle
perdite. Il mercato allora rimane senza liquidità e i danni sono molto
importanti. Si potrebbe dire che, se la speculazione ha come scopo di
proteggerci dal rischio, dovrebbe essere come un ombrello che ci
protegge dalla pioggia. Strano ombrello però, perché si apre solo se c’è
bel tempo…
La vera garanzia di liquidità sui
mercati sono le banche centrali, e l’abbiamo potuto verificare, quando è
avvenuta la crisi del 2007.
Anche Papa Benedetto Sedicesimo ha
protestato giustamente contro il controllo delle banche sul prezzo delle
materie prime agricole. Troppe persone su questo pianeta possono morire
di fame per colpa di un aumento del prezzo del riso o del grano, perché
lasciamo determinare il prezzo dalle strategie di gruppo di persone
troppo piccolo, essenzialmente nella City e a Manhattan.
Le norme contabili internazionali
che l’Europa ha adottato nel 2005 sono una vera catastrofe, perché
obbligano le società quotate in borsa a valorizzare nel loro bilancio il
più grande numero possibile di attivi al loro valore di mercato. Ciò
significa che la contabilità ormai permette di iscrivere a bilancio
delle imprese (soprattutto le banche) le bolle speculative che vi si
formano in permanenza. Sono state le banche tedesche a battersi per
dieci anni dal 1995 al 2005, per imporre queste norme calamitose. I
Tedeschi purtroppo hanno vinto questa battaglia. Il risultato più
importante è che è ormai possibile per una banca iscrivere nel suo
bilancio un profitto che non ha ancora realizzato ma che anticipa (o che
il mercato anticipa). Ciò contraddice il vecchio principio di prudenza
contabile di iscrivere le perdite anticipate, ma mai i guadagni
anticipati. Solo i guadagni realizzati effettivamente sono iscritti nel
bilancio. Il fatto di poter ormai iscrivere a bilancio i guadagni futuri
permette di gonfiare artificialmente i bilanci delle banche, quando le
cose vanno bene. Inversamente quando le cose vanno male, questo affonda
le banche. Del resto, è questa la ragione per la quale le banche stesse
hanno chiesto, alla fine del 2008, di poter beneficiare di una modifica
delle norme contabili. Questa modifica ha permesso alle banche di
cancellare come per magia una parte delle perdite causate dalle attività
tossiche subprime. Molti imprenditori industriali sarebbero felici di
poter manipolare la propria contabilità per ridurre le perdite… Credo
che sia davvero giunto il momento di riscrivere le norme contabili
internazionali, e su questo terreno fondamentale non è stato fatto
ancora nulla.
1.2 Regolamentare il settore bancario
Per chiudere questa prima parte, una
parola sul tema della separazione delle banche tra banche di deposito e
banche di investimento. Perché separare i due tipi di attività bancaria?
Credo che ci sia una buona ragione per farlo, perché le banche miste
beneficiano implicitamente della garanzia pubblica che protegge i
depositi bancari.
Dato che lo Stato (cioè alla fine il
cittadino che paga le tasse) garantisce i depositi, anche il
dipartimento che si occupa dell’attività di banca di investimento
beneficia di una garanzia pubblica. Questo immediatamente garantisce di
poter ottenere prestiti sui mercati a tassi inferiori, per poi
reinvestirli a tassi più alti. Questo piccolo “trucco” porta diverse
decine di miliardi di euro di guadagni alle banche ogni anno. Da uno
studio della New Economics Foundation, ha per esempio portato quaranta
miliardi di guadagni supplementari alle banche francesi soltanto nel
2010.
Se si dividono le attività bancarie, le
banche di investimento non godranno più della garanzia implicita dello
stato. Immediatamente, saranno obbligate a pagare tassi di interesse che
riflettano veramente la loro situazione finanziaria. Evidentemente
questo obbligherà le banche di investimento ad essere più prudenti, e
ciò non può che essere benefico per tutti. Allo stesso tempo, in questo
modo lo Stato avrà più margini di manovra in caso di fallimento di una
banca. Al giorno d’oggi per esempio, lo Stato francese non può
assolutamente permettersi di lasciare fallire una delle sue quattro
grandi banche miste. Il bilancio di BNP-PARISBAS è superiore al PIL
francese!
Se si separano le attività bancarie, si
obbligano le banche ad essere più prudenti e si riduce la loro taglia.
Entrambe queste cose avrebbero l’effetto di limitare la minaccia che
incombe sui contribuenti francesi ed europei. Il rapporto Liikanen,
redatto su domanda delle autorità europee, rappresenta un promettente
passo avanti. Non propone il ritorno a una separazione completa, ma
chiede che le attività più rischiose della banca vengano separate da
tutte le altre. Peccato però che la Francia e la Germania si siano mosse
in anticipo: sia l’una che l’altra hanno approvato a tappe forzate la
propria legge bancaria. Ebbene, sia la legge francese che quella tedesca
non separano affatto le attività bancarie: al massimo una percentuale
pari all’1,5% delle loro attività verranno separate. E perché la Francia
e la Germania hanno così accelerato i tempi, quando bastava aspettare
il lavoro della Comunità europea? Perché in Francia i deputati hanno
avuto soltanto quarantotto ore per discutere di un tema così complicato,
quando per esempio il parlamento inglese si è dato un intero anno?
Credo che la ragione sia che in Francia c’è stato un solo fallimento
bancario del 2008, quello di DEXIA, ed è costato solo dodici miliardi ai
contribuenti francesi e belgi. Gli inglesi hanno dovuto pagare molto di
più per salvare NORTHERN ROCK e evidentemente non hanno alcun desiderio
che la cosa si possa ripetere in futuro, mentre in Francia le banche
hanno ancora un’influenza molto rilevante sul potere politico.
Conclusioni:
il G20 di Londra nell’aprile del 2009 aveva dato l’impressione che ci
fosse da parte dei dirigenti dei paesi industrializzati una forte
determinazione politica a rafforzare la regolamentazione dei mercati
finanziari. Da allora è stato fatto poco. Negli Stati uniti la legge
DODD-FRANCK è entrata in vigore nel 2010, ma il testo è di più di
duemila pagine! Sarà difficile riuscire veramente ad applicarla e in
ogni caso la legge permette di non separare le attività speculative
dalle altre attività bancarie. In Europa, il commissario europeo BARNIER
ha preso alcune lodevoli iniziative, come per esempio quelle analizzate
nel rapporto Liikanen, ma poche di queste iniziative si sono per ora
concretizzate.
2. La crisi della zona euro
In questo periodo l’Italia si trova in
grandi difficoltà a causa delle misure di austerità che Bruxelles,
Parigi e Berlino tentano di imporre al suo governo. Il debito pubblico
italiano è considerato eccessivamente elevato. Sicuramente si tratta di
un debito molto pesante, ancora più grande del debito pubblico francese,
ma io credo che non sia questo il principale problema oggi. In Europa
il settore finanziario è molto più indebitato che il settore pubblico e
il principale problema economico della zona euro è la crescente
divergenza tra paesi del sud che si deindustrializzano a grande velocità
e paesi del nord che conservano intatta la loro struttura industriale.
Se si sommano gli effetti di un settore finanziario che accumula debiti
giganteschi, e di una zona euro che favorisce la divergenza industriale,
si ottiene quello che noi vediamo: dei paesi del sud la cui bilancia
commerciale in deficit riflette in maniera esatta i surplus commerciali
dei paesi del nord; dei paesi del sud dove in alcuni casi il settore
finanziario è imploso (come per esempio in Spagna) e dove i debiti
pubblici sono esplosi proprio perché si è creduto necessario intervenire
per salvare il settore finanziario.
Non possiamo certo sostenere che le
persone siano meno lavoratrici, o meno efficienti o meno intelligenti
nei paesi del sud che in quelli del nord. Semplicemente nei paesi del
sud ci siamo rifiutati, fin dalla creazione della zona euro, di
praticare le politiche di deflazione salariale, che invece i dirigenti
politici tedeschi sono riusciti ad imporre ai loro concittadini di
classe media. Ecco a mio avviso la ragione per la quale l’industriale
francese è affascinato dall’industriale tedesco: quest’ultimo è riuscito
ad imporre ai lavoratori dei sacrifici che i francesi rifiutano. Chi ha
ragione? Credo che nessuno abbia ragione. La strategia tedesca non può
certamente essere esportata a tutta l’Europa, se non vogliamo correre il
rischio di entrare tutti insieme in una fase di recessione deflattiva.
Eppure è proprio questo che si cerca di imporre con i piani di
aggiustamento strutturale. Dato che, con l’entrata nella zona euro, la
strada della svalutazione monetaria non è più praticabile, non resta, in
apparenza, che una sola via per recuperare competitività, cioè la
svalutazione interna che poi vuol dire abbassamento dei costi di
produzione, e cioè riduzione dei salari. Questa politica, però, non ha
funzionato in Grecia né in Portogallo né in Spagna e non vedo alcuna
ragione perché possa funzionare in Italia o in Francia. Bisogna
ricordarsi che i salari sono una componente importante del PIL. Se si
abbassano i salari, automaticamente si abbassa il PIL! Perché il
rapporto debito-PIL possa malgrado tutto diminuire, è allora necessaria
una riduzione gigantesca del debito pubblico per poter compensare la
caduta del PIL. Ma se si abbassano i salari, si provoca una depressione
in tutto il sistema economico: le famiglie riducono gli acquisti, le
imprese riducono la produzione, e alla fine il PIL continua a scendere!
Risultato: il rapporto debito-PIL continua a salire! C’è un solo
parametro che può veramente migliorare grazie alla svalutazione interna,
la bilancia commerciale: se tutti consumano di meno, è chiaro che le
importazioni diminuiranno. Ma, non è certo questa una soluzione durevole
ai disequilibri commerciali tra paesi europei. Infatti, se la
recessione continua, anche le esportazioni dovranno diminuire e il
disequilibrio riapparirà. In poche parole, non è la deflazione salariale
che permetterà magicamente alla Grecia di diventare un paese
industrializzato come la Germania. La Grecia oggi produce turismo e
trasporto marittimo. Per creare altre industrie, ci vorrebbero capitali
pronti ad investimenti di lungo periodo. Abbiamo visto che le regole
della finanza non favoriscono in alcun modo investimenti di questo tipo.
A mio avviso, non ci sono che due modi
per uscire in maniera ragionevole dall’impasse nella quale siamo finiti:
il federalismo europeo o una ridefinizione della zona euro. Il federalismo europeo
sarebbe certamente la soluzione preferibile, come sostenuto anche dai
vescovi europei nella loro dichiarazione del 2012. Temo purtroppo che
sia sempre più difficile realizzarlo. Ridefinire la zona euro potrebbe
voler dire sostituire l’euro come moneta unica con un euro moneta comune.
Si tratterebbe di mantenere l’euro come moneta di scambio con i paesi
esterni alla zona euro, ma all’interno permettere a ciascun paese di
utilizzare degli euro nazionali. Ci sarebbero euro-lire, euro-franchi ed
euro-marchi. Questa soluzione è attraente dal punto di vista teorico ma
onestamente non credo che abbia un avvenire politico, almeno fino a
quando il problema del debito pubblico resterà l’ossessione principale
dei nostri politici.
3. Quali risorse spirituali possono offrire i cristiani di fronte alle derive del capitalismo?
3.1 All’origine: un dono senza debito
C’è a mio parere qualche cosa di
perverso quando si distrugge un paese come stiamo facendo oggi in
Grecia, perché non può rimborsare il suo debito pubblico. Certo, la
Grecia ha truccato i suoi conti nel 2001, quando voleva dimostrare di
soddisfare i criteri di Maastricht. Ma anche in Francia si sono
abbelliti i conti pubblici e certamente anche in Italia 1996. Certo, le
banche francesi e tedesche hanno prestato molti soldi alla Grecia tra il
2001 e 2010, ma su ogni prestito hanno sempre ottenuto un premio che
remunerava proprio il rischio che correvano. Non è come se scoprissero
oggi la fragilità della Grecia, la conoscevano perfettamente e hanno
comunque scelto di correre il rischio. Non è sicuramente solo ai Greci
che dobbiamo fare pagare i costi di questi gravi errori di gestione. E
poi, per cosa sono stati utilizzati i soldi prestati alla Grecia? Per
pagare le imprese tedesche, per esempio SIEMENS che ha costruito la
metropolitana ad Atene o per comprare armi francesi. Proprio in questi
anni la Grecia è diventata il terzo cliente della Francia per quanto
riguarda gli armamenti!
E oggi duecento mila persone hanno
abbandonato la città di Atene. La giovane generazione di diplomati
scappa da un paese dove crede, in parte purtroppo a giusto titolo, di
non poter avere nessun avvenire.
Di fronte a questa situazione assurda
molte persone nei paesi del Nord si nascondono dietro un facile
moralismo: quando si ha un debito, bisogna pagarlo. È interessante che i
Paesi, che con più forza difendono questo punto di vista, siano quelli
di cultura protestante. Certamente in maniera inconscia riflettono il
legame che esiste in tedesco tra Schuld (peccato) e Schulden (debiti).
Bisogna che i paesi del Sud redimano i loro peccati.
Di fronte a questa distorsione, che
vorrebbe che il rimborso dei debiti prevalesse addirittura sulla vita,
la Bibbia risponde, dall’origine, con un dono inaudito: la Creazione dal
nulla. Il Dio biblico, consegnando la creazione agli uomini, non lascia
loro alcun debito in eredità. Questa creazione, questo dono, sono
gratis, senza condizioni.
Se la vita vale più dei debiti, è
perché il fondamento del vivere insieme non è assimilabile ad una
relazione contrattuale di debito come vorrebbe Nietzsche: è invece una
alleanza dove il primo termine, la prima parola, è il ricordo di un
gesto gratuito di creazione e di liberazione, senza contropartite e
senza debiti impliciti: “io sono colui che ti ha fatto uscire
dall’Egitto” (Esodo 20, 2). Allo stesso modo la base del vivere insieme
in un’impresa non può essere semplicemente un rapporto di debito tra
lavoratori, azionisti e obbligazionisti, ma un’avventura comune
costruita su un’alleanza tra tutte le parti in gioco.
Che cosa c’è di strano se Gesù, nel
Vangelo di Luca, 16,1-13, elogia quel servo abile che, però, si
attribuisce il diritto di annullare una parte dei crediti del suo
padrone? Lo fa, ci dice Gesù, per procurarsi degli amici nei giorni
della disgrazia, in altre parole lo fa per conservare dei legami di
amicizia. E che cosa c’è di strano se il Levitico vieta il prestito a
interesse tra fratelli del popolo eletto e prescrive la remissione dei
debiti nel Giubileo (Levitico 25, 8-55) ? Proprio nell’annuncio del
Giubileo, Giovanni Paolo II vedeva, nell’enciclica “Tertio Millenio Adveniente”, la prefigurazione della dottrina sociale della Chiesa.
La Chiesa, fin dai primi tempi, ha sempre vietato il prestito ad usura.
E non l’ha fatto in un semplice
contesto disciplinare, ma in occasione del grande concilio cristologico
di Nicea (325), che vietava ai religiosi il prestito con interesse. Poi,
durante il concilio del Laterano (1225) che, seguendo la lezione di San
Tommaso, proibiva interessi che andassero al di là di una giusta
remunerazione per il rischio. Infine, durante il concilio di Trevi
(1227) che vietava la remunerazione dei depositi. Questi interventi
ripetuti, e in sedi così autorevoli, dimostrano l’importanza che ha
sempre rivestito per la Chiesa la questione dei debiti.
In effetti, se pensiamo che la
questione del debito è, insieme alla guerra, la più grande minaccia che
pesa sui legami sociali (cioè sull’amicizia tra persone), si capisce
perché abbia effettivamente senso interdire il prestito ad usura,
proprio nel momento in cui si pongono le basi della dogmatica cristiana.
La sorgente del legame sociale, la sua segreta rigenerazione, non è
forse di natura teologica? Non dovremmo forse cercarla in quel Luogo
senza volto che è lo Spirito di Cristo (Ch.Theobald, in “Monotheisme et Trinité”)?
Nell’enciclica “Vix Pervenit”
(1745), Benedetto XIV rammentava alla Chiesa d’Italia che il prestito ad
interesse non è permesso, quando si tratta di prestito al consumo, che
non crea nulla che possa creare un sovrappiù. Da allora, il prestito ad
interesse è stato tollerato, ma nulla di più. In altre parole, il
divieto stabilito a Nicea non è mai stato rimesso in causa. E come
potrebbe? Certo si sono precisati dei casi di possibili eccezioni, ma la
posizione fondamentale è rimasta la stessa nei secoli: l’amore e la
vita devono prevalere sulle regole contabili.
3.2 Le banche ed il sacro
Il mestiere delle banche consiste, in
larga misura, nel creare moneta dal nulla. Con le regole in vigore oggi,
ogni volta che la banca accorda un prestito, la moneta prestata è per
il 90% creata dal nulla, inesistente fino ad un attimo prima. Se è così,
la maggior parte dei debiti che dovrebbero giustificare le sofferenze
imposte ai popoli del sud Europa non corrisponde a denaro guadagnato con
il sudore della fronte dai lavoratori dell’Europa del Nord.
Corrisponde, in primo luogo, a qualche linea di codice su un computer.
Questo particolare, ignorato nella discussione pubblica, non rende
soltanto inaccettabile la distruzione della società greca (e forse tra
poco portoghese, spagnola, italiana). Rivela anche una somiglianza
apparente tra il lavoro del banchiere e l’azione divina. Creare moneta è
come irrigare di sangue il corpo sociale, permettendo al sistema
economico di funzionare. Il sangue dona la vita.
Ecco perché il Presidente di Goldman
Sachs, Lloyd Blankfein, si è potuto permettere di rispondere ad un
giornalista dicendo che “si accontentava di fare il lavoro di Dio”.
Ma quale Dio? Un dio malvagio che condanna a morte i suoi figli per costringerli a ripagare i debiti?
Davvero oggi i mercati sembrano avere
alcune caratteristiche delle antiche divinità: bisogna sacrificare a
queste divinità i servizi pubblici, le pensioni, i sussidi di
disoccupazione, i sistemi di assicurazione sociale, tutto per “placare
la loro ira”. E solo due categorie di interlocutori sono autorizzati a
superare il limite che separa i laici dai mercati: la banche, le quali
ricoprono il ruolo che un tempo aveva la tribù di Levi, ed il banchiere
centrale, che assume sempre più l’atteggiamento del Gran Sacerdote.
Divinità invero misteriose…: chi,
nell’opinione pubblica, ha capito che i piani di salvataggio per la
Grecia, la Spagna, il Portogallo, Cipro, sono prima di tutto piani per
salvare le banche francesi e tedesche? I popoli di questi Paesi
avrebbero accettato i sacrifici, se avessero davvero capito a chi erano
destinati i soldi che ricevevano in prestito dall’Europa o dal Fondo
Monetario Internazionale? La gran parte del denaro prestato dalla Troika
in cambio di pesanti piani di aggiustamenti strutturali è tornato
immediatamente nei bilanci delle nostre banche.
È dunque molto preciso quello che afferma l’enciclica “Quadragesimo anno”
pubblicata il 15 maggio 1931 da papa Pio XI, quando stigmatiza la
finanza senza regole parlando di dittatura economica ed utilizzando la
metafora del sangue monetario che irrora il corpo sociale, con parole
che potrebbero essere state scritte nel 2013:
105. E in primo
luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo
concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza
enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e
questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori
del capitale, di cui essi però dispongono a loro grado e piacimento.
106. Questo
potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il
danaro, la fanno da padroni; onde sono in qualche modo i distributori
del sangue stesso, di cui vive l’organismo economico, e hanno in mano,
per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro
volontà, potrebbe nemmeno respirare.
107. Una tale
concentrazione di forze e di potere, che è quasi la nota specifica della
economia contemporanea, è il frutto naturale di quella sfrenata libertà
di concorrenza che lascia sopravvivere solo i più forti, cioè, spesso i
più violenti nella lotta e i meno curanti della coscienza.
Forte della sua scelta profetica di non
lasciarsi affascinare dagli idoli, la Chiesa e in particolare il
Consiglio pontificio Giustizia e Pace ha chiesto nell’autunno del 2011
alcune riforme strutturali del sistema finanziario precise ed esigenti:
l’imposizione di una tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione
dell’attività bancaria, la ricapitalizzazione sotto condizione delle
banche. Si può dire che, ad un anno di distanza, nessuna di queste tre
domande ha avuto una risposta concreta.
3.3 Il credito: dal sacro alla santità
Certamente il ruolo vitale giocato dal
settore bancario nell’economia favorisce il fatto che le nostre società
tendano a situarlo nel luogo allo stesso tempo affascinante e
impossibile del sacro. Tentazione, questa della sacralizzazione, che
nasce ben prima del processo di deregolamentazione della finanza. Il
grande racconto biblico la situa molto presto nel processo di
costituzione del legame sociale: non appena il popolo ebreo comincia a
formarsi ed esce dall’Egitto si parla di una frontiera che separa il
Monte Sinai, là dove Jahvè si mostra, dal resto del popolo. Chiunque
tenterà di varcare questa frontiera sarà punito con la morte, tranne
coloro (Mosè e Aronne) che godono di uno speciale privilegio. Tutta la
Bibbia è permeata da questa immagine del sacro.
Gesù però attraversa questa frontiera: “
non vi chiamo più servi, ma amici” (Giovanni XV,15). E nell’ultimo
libro del Nuovo Testamento, l’Apocalisse, si indica il destino
escatologico di questa trasgressione fondamentale. Nel terzo capitolo
dell’Apocalisse si parla forse di un invito, rivolto a tutti, a venire a
sedersi ai piedi dell’agnello, sul trono del Padre. Se l’esperienza
cristiana può essere vista come liberazione dal sacro, che cosa ci può
insegnare sul rapporto con il denaro?
Il denaro ha due aspetti: da un lato
permette di scambiare beni e servizi che già esistono e questo è il lato
rivolto al passato, che misura, quantifica, valuta, fornisce regole di
equivalenza e produce misure di impatto… l’altro aspetto della moneta
invece è quello rivolto al futuro, come una promessa, ed è il lato del
credito.
Lo abbiamo già detto, l’attività
bancaria consiste in gran parte nella creazione di moneta. Un potere
taumaturgico che è limitato soltanto dalla capacità di chi prende a
prestito nel trasformare il segno monetario in ricchezza effettiva. È
quello che cerca di verificare, a suo rischio e pericolo, ogni banchiere
che fa bene il suo mestiere, quando si accerta che chi prende a
prestito sia solvibile. Se così non è, infatti, nessuna attività reale
corrisponderà mai, né oggi né domani, alla creazione monetaria messa in
opera dal banchiere. La moneta creata senza una controparte reale si
trova allora condannata a mostrare soltanto il suo primo aspetto: quello
di strumento di valutazione del passato. In questo caso la creazione
monetaria diventa inflazionistica: la quantità di segnali monetari
destinati a valorizzare le attività reali aumenta, ma le attività reali
restano le stesse. È quello che è successo nel XVI secolo, quando si
riportavano in Europa l’oro e l’argento scoperti in America.
Chi presta denaro entra così in un
rapporto di alleanza con chi chiede a prestito, e lo fa perché crede in
un avvenire comune. I due si trovano ad essere solidali nei rischi che
circondano il processo di creazione di ricchezza, reso possibile dalla
creazione monetaria. È un gesto di credito in senso proprio: in caso di
mala sorte, il prestatore non è legittimato a sacrificare l’alleanza, il
legame di amicizia che lo unisce al debitore. È in questo atto di fede
che lega creditore e debitore che si realizza il processo di creazione.
Nella parabola dei talenti, il Signore è
rappresentato quasi con i tratti del banchiere centrale. Crea i talenti
dal nulla e li dà in prestito. Il terzo servitore, convinto che il
banchiere centrale sia un uomo severo, non se ne fa nulla: il denaro
resta solo rivolto al passato, non produce nulla. I primi due invece
trasformano i talenti in ricchezza reale: la creazione monetaria produce
un nuovo giorno.
La transizione ecologica
La possibilità di una vera alleanza tra
chi finanza una banca e chi ci lavora richiede che i finanziatori siano
fortemente coinvolti nel progetto industriale della banca. Questo non
può succedere se i finanziatori sono dei semplici creditori, che
aspettano un tasso di rendimento nominale indipendente dalla congiuntura
economica. Ecco perché, per ragioni sia spirituali sia economiche, io
credo che sia molto importante valorizzare i fondi propri delle imprese e
in particolare delle banche. Sono il capitale e l’adesione al progetto
industriale a fondare il rapporto di fiducia tra l’investitore e
l’impresa. E lo stesso vale a livello di un intero paese. Il capitale
fisico ed umano di un paese e il suo progetto per il futuro sono
infinitamente più preziosi del suo debito.
Ma qual è oggi il progetto politico dei
paesi europei? Io credo che l’Europa viva una specie di blocco
escatologico da più di quarant’anni: dopo il grande sforzo della
ricostruzione alla fine della seconda guerra mondiale sembra quasi non
avere più un progetto. Quale tipo di progetto politico possiamo proporre
ai nostri figli che sia in grado di motivarli ad alzarsi presto la
mattina, ad andare a scuola, a lavorare con impegno? E se pensiamo alla
nostra Chiesa: qual è il grande orizzonte che noi come cristiani
possiamo proporre che dia un senso alla storia e al nostro impegno per
il ventunesimo secolo?
Credo che questo progetto, questo
grande racconto, sia la transizione ecologica, cioè il passaggio da una
economia ereditata dalla Rivoluzione industriale, grande consumatrice di
energia fossile, verso una economia “pulita”, meno inquinante, più
rispettosa della natura. Questo lavoro ci può tenere occupati durante i
prossimi settanta anni. Un progetto di questo genere può creare molti
nuovi posti di lavoro (almeno cinque milioni nell’insieme della zona
euro). Ma soprattutto può dare un senso storico all’impegno di una
intera generazione: quello di portare a buon fine questa transizione.
Quale è il capitale di un paese? È il
suo patrimonio. Per esempio quello dell’Italia è enorme, vale circa
sette volte il suo prodotto interno lordo. Questo ci dice che una
imposta sul capitale può risolvere il problema del debito pubblico.
Visto in questa ottica, quello del debito pubblico non è il vero
problema dell’economia italiana. Il vero problema, il grave fallimento
della zona euro, è l’assenza di un progetto politico. La transizione
ecologica può essere, se noi lo vogliamo, il grande progetto in grado di
dare respiro alla costruzione europea. Ma perché questo progetto si
possa realizzare, è indispensabile che ci si muova in maniera efficace
nella direzione di una maggiore regolamentazione dei mercati finanziari.
Fino a che una finanza senza regole
permette dei rendimenti del 15% all’anno, il risparmio non potrà essere
incanalato verso un progetto di industrializzazione verde, che offre
rendimenti solo su periodi più lunghi. Il risparmio dei cittadini, così
abbondante in Europa, resterà prigioniero del casinò internazionale
della finanza. Tocca quindi a noi, in Europa, nella società civile,
nelle nostre chiese, costruire l’opinione pubblica, che può spingere i
politici a prendere le misure necessarie per regolamentare la finanza.
Questo mi sembra un modo, qui ed ora, per riappropriarsi della
dimensione collettiva dell’esigenza etica.
“Vedi qualche cosa, Geremia?” domanda
il Signore al profeta. Come Geremia noi possiamo rispondere che vediamo
gli eserciti che si avventano sul regno per distruggerlo. Questo è ciò
che ci minaccia, se ci sottomettiamo alla logica di una finanza
mortifera. Ma, come Geremia, noi possiamo anche rispondere “vedo il
mandorlo in fiore”. Nel cuore dell’inverno, la speranza della primavera,
della terra promessa. Questa speranza è già tra noi, a noi tocca farla crescere.
Brescia, 23 ottobre 2013 Gael Giraud sj
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