lunedì 6 gennaio 2014

LA SCOMPARSA DI UN GRANDE ITALIANO. IL PROF. AUGUSTO GRAZIANI

LA SCOMPARSA DI UN GRANDE ITALIANO.
IL PROF. AUGUSTO GRAZIANI

"Anche l’Italia, che è uno degli ultimi paesi a realizzarlo, nel ’90 ammette la piena libertà dei movimenti di capitali. È evidente che si crea uno spazio finanziario europeo unico, un tasso d’interesse collegato in tutte le piazze finanziarie al quale ogni paese deve adeguarsi. Non è più possibile condurre una politica monetaria autonoma, non è più possibile mettere in prima linea l’obiettivo del sostegno della domanda globale e della piena occupazione, occorre recepire il tasso d’interesse dai vincoli esterni che vengono dai mercati finanziari maggiori. L’equilibrio finanziario prende il sopravvento come obiettivo primario rispetto al precedente obiettivo della piena occupazione". (Augusto Graziani, anno 1994)
 
Nasce a Napoli da una famiglia ebraica originaria di Modena, figlio del giurista Alessandro Graziani e nipote dell'economista Augusto Graziani (1865-1944), entrambi docenti a Napoli.
Consegue la laurea in economia e commercio presso l'università "Federico II" di Napoli proseguendo successivamente i suoi studi prima alla London School of Economics e poi all'Università Harvard in Massachusetts, USA.[1]
Nel 1962 diviene professore di economia politica presso l'università di Catania. Nel 1965 è professore di politica economica presso l'università di Napoli. Dal 1989 è professore ordinario di economia politica presso la facoltà di economia e commercio dell'Università "la Sapienza" di Roma.[2]
Durante la XI legislatura (1992-1994) è senatore della Repubblica nel gruppo del Partito Democratico della Sinistra.[3]
Fu membro dell’Accademia Nazionale dei Lincei, della Società nazionale degli economisti, dell’Accademia delle scienze di Torino, del consiglio direttivo della Fondazione Antonio Gramsci e dell’advisory board dello European Journal of the History of Economics Thought.[4]
Muore a Napoli il 5 gennaio 2014, dopo una lunga malattia
Augusto Graziani è noto per avere elaborato la Teoria del circuito monetario,[6] di cui è considerato uno dei fondatori e il principale esponente italiano.[
Fonte: http://it.wikipedia.org/wiki/Augusto_Graziani

 L’Italia prima e dopo l’euro. 
luglio-agosto 2002           
LA MONETA AL GOVERNO
Augusto Graziani  

 Allorché si prospettava l’adozione dell’euro come moneta unica, gli esperti concordavano nel prevedere per la nuova valuta il destino di una valuta forte. Nel loro insieme, i paesi ammessi a far parte dell’Unione monetaria (undici, in seguito divenuti dodici) formavano un mercato finanziario maggiore di quello statunitense; per di più, alcune delle valute che venivano fuse nell’euro potevano vantare una tradizione consolidata di stabilità e solidità, mentre la struttura industriale che stava alle spalle della nuova moneta era fra le più avanzate del mondo. Tutte queste previsioni erano destinate a risultare fallaci. A partire dal 1° gennaio 1999 e fino ad oggi (giugno 2002) la moneta europea, nonostante la recente ripresa, si è svalutata di circa il 20 % rispetto al dollaro e di oltre il 10% rispetto allo yen giapponese (lo stesso yen si è svalutato del 10% sul dollaro).
Per l’Italia, l’adozione di una moneta comune, unita all’andamento declinante del corso dell’euro rispetto alle altre grandi valute mondiali, ha significato l’abbandono di quello che era stato in passato un carattere tipico della politica valutaria italiana. In anni precedenti, quando l’Italia poteva condurre una politica valutaria indipendente, le autorità monetarie (Banca d’Italia e Tesoro) avevano sempre tentato di realizzare una sorta di linea differenziata. Da un lato veniva perseguito, se non un lieve apprezzamento della lira, almeno un tasso di cambio stabile rispetto al dollaro; questa linea aveva lo scopo di evitare l’aumento dei prezzi in lire delle importazioni quotate in dollari (anzitutto il petrolio, ma anche macchinari ad alta tecnologia, brevetti, apparecchi elettronici). Dall’altro, veniva vista con favore una lieve svalutazione della lira rispetto al marco tedesco, in quanto poteva incoraggiare le esportazioni verso i mercati europei. La strategia dei cambi differenziati era stata ufficialmente inaugurata fra il 1975 e il 1979 (il sistema di Bretton Woods era crollato fin dal 1971 con la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro e l’Italia si muoveva in regime di cambi flessibili).
La Banca d’Italia era allora retta da Paolo Baffi, sostenitore convinto di questa strategia, ed altrettanto diffidente sulle possibilità che la lira italiana riuscisse a rispettare i vincoli che, a partire dal 1979, le sarebbero stati imposti con l’adesione, avvenuta nel febbraio del 1979, al Sistema monetario europeo. Questi lasciò che nel giro di un paio di anni la lira perdesse oltre il 10% del suo valore rispetto al marco. Una strategia non dissimile venne nuovamente adottata fra il 1992 e il 1996, quando la lira uscì dal Sistema monetario europeo e per quattro anni tornò ad essere una valuta liberamente fluttuante.


Questa linea trovava una sua ragion d’essere nella situazione di fatto: nel 1975 le esportazioni verso l’area del dollaro (Stati Uniti e paesi Opec) superavano appena il 13% delle esportazioni italiane, mentre le importazioni italiane dagli stessi paesi si aggiravano sul 25% del totale; era quindi corretto considerare l’area del dollaro come area italiana di importazione, mentre l’Europa (intesa come i paesi che oggi costituiscono l’Unione europea), che assorbiva oltre il 55% delle esportazioni italiane, andava vista come tipica area di sbocco. Oggi (dati del 2001), le esportazioni italiane verso l’area del dollaro si muovono ancora intorno al 13% del totale, ma le importazioni, sempre in termini relativi, si sono ridotte e non vanno al di là dell’11-12% del totale. I paesi dell’Unione europea restano dominanti, ma ad essi si aggiungono nuove destinazioni e provenienze. Un’inchiesta molto accurata riguardante il settore industriale della provincia di Brescia, uno dei comprensori che può essere considerato tipico dell’industria esportatrice del Nord, rivela un declino consistente della quota di esportazioni dirette in Germania dopo il 1985; al tempo stesso, poiché l’industria del Centro-Nord sta trasferendo le fasi più elementari del processo produttivo verso l’Europa dell’est (nel caso della provincia di Brescia, sembra che il paese favorito sia la Romania), nasce un movimento crescente di esportazioni e importazioni di semilavorati con paesi non appartenenti all’Unione europea (1).
Tuttavia, nonostante i cambiamenti in atto, il problema messo a fuoco da Baffi quasi trent’anni fa, non è stato superato, in quanto le esportazioni italiane, oggi come allora, vanno perdendo competitività nei mercati europei. Ciò dipende dal fatto che, sebbene rispetto ai primi anni ottanta il problema dell’inflazione si possa considerare oggi del tutto superato, tuttavia il livello dei prezzi monetari italiani tende ancora a crescere più dei prezzi monetari tedeschi: nei primi quattro mesi del 2002, l’indice generale dei prezzi al consumo in Germania segnava un aumento dell’1,9% sull’anno precedente, mentre per l’Italia l’aumento corrispondente superava il 2,5%. Questa lieve inflazione strisciante non può più essere compensata da una svalutazione della lira rispetto al marco. Al tempo stesso, l’apprezzamento del dollaro rispetto all’euro, apprezzamento durato oltre tre anni, rende le importazioni italiane più costose e conferma il pericolo di un’inflazione importata.
Tale pericolo diventerebbe ancora più concreto se il prezzo del petrolio dovesse volgersi nuovamente all’aumento. Se ciò dovesse accadere, i paesi europei sarebbero colpiti due volte, sia per l’aumento del prezzo del greggio in sé, sia per la graduale svalutazione dell’euro rispetto al dollaro. Ogni aumento di prezzo del greggio colpisce invece gli Stati Uniti una volta sola, dal momento che il greggio è quotato direttamente in dollari. Inoltre, l’economia degli Stati Uniti gode di un secondo privilegio. Il Trattato del Nafta (North American Free Trade Agreement), in vigore dal 1994, ha creato una zona di libero scambio comprendente Stati Uniti, Canada e Messico. Alla firma del trattato, gli Stati Uniti fecero includere una clausola particolarmente vantaggiosa (contenuta nell’articolo 605 del Trattato), secondo la quale il Canada, che già esporta verso gli Stati Uniti circa la metà del proprio petrolio, non potrà ridurre le proprie forniture se non nel caso in cui si riscontri una riduzione nelle sue risorse. Grazie a questa clausola, gli Stati Uniti pompano petrolio a discrezione dal Canada, mentre i paesi europei devono comprare greggio dal Medio Oriente al prezzo fissato unilateralmente dall’Opec.
Mentre, come abbiamo detto, l’ingresso nell’Unione monetaria europea ha imposto all’Italia un rovesciamento della sua linea tradizionale di politica valutaria, lo stesso non si può ripetere della Germania. Quando in Europa vigevano cambi flessibili (ad esempio fra il 1973 e il 1978) e anche successivamente, quando entrò in vigore il sistema monetario europeo, la Germania fece in modo di mettere in pratica una sua politica valutaria particolare (2). In linea di principio, la Germania accettò più di una volta di rivalutare il marco rispetto alle altre valute europee; ma le successive rivalutazioni del marco furono sempre minori di quanto il differenziale di inflazione avrebbe richiesto per ripristinare il cambio reale precedente. Poiché per molti anni la Germania godette di una sostanziale stabilità dei prezzi, mentre gli altri paesi europei non potevano evitare una lenta ma continua inflazione, con il risultato che il marco tedesco, sebbene ufficialmente rivalutato in termini monetari, in realtà si andava svalutando in termini reali. L’industria tedesca riusciva in tal modo ad accoppiare la sua superiorità tecnologica al vantaggio derivante dalla possibilità di mettere in vendita i propri prodotti a prezzi relativi decrescenti. Questa strategia procurò alla Germania l’accusa di praticare una politica neomercantilista (3).
Oggi la Germania riesce ancora a seguire la stessa linea. Per molti anni il tasso di inflazione tedesco è stato inferiore rispetto a quello di altri paesi europei. In condizioni diverse, questa situazione potrebbe indurre le autorità monetarie tedesche a lasciar che il marco si rivaluti sui mercati; ma, da quando le valute europee sono fuse in una moneta unica secondo le parità fissate alla mezzanotte del 31 dicembre 1998, questo non può più avere luogo. Di conseguenza, le esportazioni tedesche si avvantaggiano di una competitività crescente, come se il marco venisse continuamente svalutato. Il marco tedesco dunque, non soltanto, in quanto incorporato nell’euro, ha perso terreno in termini nominali rispetto al dollaro, ma si avvantaggia di un’ulteriore svalutazione in termini reali, grazie al tasso di inflazione più basso rispetto agli altri paesi europei. Col passare del tempo, i tassi di cambio iniziali fissati all’avvento dell’euro divengono sempre meno realistici.
Riflessi dell’Unione monetaria sui divari regionali I divari regionali, ed in particolare il divario fra Nord e Sud, restano fra i problemi non risolti del paese. Le conseguenze negative dell’Unione monetaria sono cosa di cui il Mezzogiorno ha fatto esperienza fin dall’unificazione politica di quasi un secolo e mezzo fa. Oggi si ritorna a parlare in termini pessimistici delle ripercussioni che l’unificazione monetaria europea potrà esercitare sull’economia del Mezzogiorno. La teoria delle unioni monetarie mostra che le conseguenze di eventi esterni negativi non sono mai simmetriche e colpiscono più gravemente le regioni deboli rispetto alle regioni dinamiche. Le industrie tradizionali delle regioni meridionali saranno colpite negativamente dalla concorrenza proveniente da altri paesi europei come la Spagna o la Grecia, che possono giovarsi di costi del lavoro più bassi; e lo svantaggio potrà essere aggravato dalla presenza di diseconomie esterne, dovute all’inadeguatezza delle infrastrutture come strade, ferrovie, aeroporti, telecomunicazioni e servizi in generale.
Sebbene una svalutazione della lira del Sud contro la lira del Nord non sia nemmeno concepibile, qualcosa di non molto lontano venne suggerito in passato, quando si ventilò la possibilità di una svalutazione virtuale, da applicarsi non già ai movimenti effettivi di merci, ma almeno alle analisi costi-benefici effettuate per la valutazione degli effetti della spesa pubblica. Una pratica simile avrebbe i suoi vantaggi in quanto, producendo un aumento dei costi di importazione, darebbe luogo a una collocazione più favorevole in graduatoria per gli investimenti che fanno maggiore ricorso a produzioni locali. Altri, sottolineando il fatto che una svalutazione della moneta locale esercita sui movimenti di merci conseguenze simili a quelle di una riduzione dei salari, ne deducono che i sindacati non dovrebbero insistere per applicare salari uguali in tutto il territorio nazionale e dovrebbero invece accettare il principio di salari territorialmente differenziati in relazione alla produttività del lavoro in ogni regione.
Non si può ignorare d’altro canto che, per quanto possa sembrare paradossale, il processo di globalizzazione dell’economia e l’unificazione monetaria europea non hanno mancato di produrre anche conseguenze positive per l’economia del Mezzogiorno. Come si è già ricordato, numerose imprese del Nord hanno dislocato fasi della produzione in altri paesi, là dove il costo del lavoro è più basso e la legislazione a tutela dell’ambiente meno rigorosa. Anni addietro i paesi favoriti furono quelli dell’Estremo Oriente. Oggi le imprese privilegiano l’Est europeo, la Turchia, l’Albania. Questa misura estrema di riorganizzazione a grande distanza resta tuttavia appannaggio delle imprese dotate di dimensione e di capacità finanziaria adeguate per affrontare lo sforzo necessario. Le imprese minori, egualmente poste sotto pressione dalla concorrenza, ma non in grado di trasferirsi in paesi lontani, decentrano parte delle loro attività nelle regioni del Sud. Ha così preso avvio la così detta ‘linea adriatica’ dello sviluppo, seguita ormai da incursioni sempre più profonde nell’entroterra. Ne risulta il sorgere di un numero crescente di piccole imprese, molte delle quali lavorano, direttamente o indirettamente sulla base di commesse provenienti dal Nord.
Sviluppi simili suscitano giudizi molto svariati. Alcuni salutano la nascita di questa popolazione di piccole imprese come un punto di svolta nello sviluppo industriale del Mezzogiorno. Nell’opinione di costoro, l’antica politica dei grandi impianti, messa in atto negli anni sessanta e settanta ad opera di imprese private e pubbliche, rappresentò una forzatura ed un grave errore di strategia; viceversa, la nascita di imprese minori, frutto di iniziativa locale spontanea, potrebbe condurre finalmente a trapiantare anche nel Mezzogiorno l’esperienza felice dei distretti industriali che hanno fatto la fortuna di tante regioni dell’Italia centrale (4). Non mancano peraltro giudizi nettamente opposti: si fa rilevare che le imprese minori del Mezzogiorno vivono per lo più come imprese sommerse, occupano lavoro irregolare, violano le norme di sicurezza, non rispettano le prescrizioni riguardanti l’ambiente di lavoro. Imprese di questa natura non potrebbero diventare la via di ingresso del progresso tecnologico, e non farebbero che consolidare l’arretratezza industriale della regione, sia pure a livelli di reddito più elevati. Alla popolazione crescente delle microimprese, viene contrapposta – come esempio di sviluppo assai più promettente – la presenza di un numero limitato ma significativo di nuove imprese ad alta tecnologia nel settore dell’informatica (5).
I poteri della Banca centrale europea Sorge qui il problema del controllo dell’inflazione nei paesi europei e delle funzioni attribuite alla Banca centrale europea. È diffusa l’opinione che la Bce abbia assunto tutti i poteri dapprima affidati alle singole banche centrali nazionali e che, quindi, il controllo completo della politica monetaria si trovi oggi nelle sue mani. Secondo questo modo di vedere, la Bce, quanto a struttura e poteri, sarebbe sorta come istituzione del tutto simile alla Federal Reserve americana. E infatti, quando la Bce venne ideata, era impressione unanime che essa dovesse diventare la vera Banca centrale di tutti i paesi partecipanti, al punto che non mancò chi denunciò come improprio l’aver affidato poteri così estesi a un’istituzione sottratta a ogni controllo democratico da parte degli elettori (6). Viceversa, come ha ricordato di recente Steiger, divenne presto chiaro che non sarebbe stato così (7). La Bce fissa il tasso ufficiale di sconto (il così detto tasso di riferimento) per tutti i paesi partecipanti. Ma, al di là di questo, essa non esercita alcun vero controllo sulla quantità di moneta e, cosa ancor più importante, non svolge alcuna funzione di prestatore di ultima istanza in caso di crisi. Inoltre, la Bce non ha alcuna competenza sul controllo del cambio fra euro e altre valute, controllo che è rimasto affidato al Consiglio dei ministri degli Esteri dei paesi dell’Unione.
Questi poteri limitati della Bce trovano riscontro anche nella struttura istituzionale dei suoi organi. La Bce è governata da un Comitato esecutivo di sei membri, in linea di principio assolutamente indipendente dai governi dei paesi partecipanti (il fatto stesso che i componenti del Comitato esecutivo siano in numero inferiore rispetto al numero dei paesi partecipanti viene addotto a riprova della totale indipendenza fra Comitato e governi). Però, al di sopra del Comitato esecutivo esiste un altro organismo, il Consiglio direttivo, nel quale sono presenti, accanto ai sei membri del Comitato, i Governatori di tutte le Banche centrali nazionali. Costoro sono attualmente in numero di dodici e quindi, se concordi, potrebbero facilmente mettere in minoranza il Comitato esecutivo. Naturalmente, secondo le regole che si è data l’Unione europea, anche i Governatori delle Banche centrali nazionali sono indipendenti dai rispettivi governi; ma è cosa nota, e sovente fatta notare, che i legami fra governi e Banca centrale sono invece molto stretti in tutti i paesi.
Questa struttura lascia sospettare che le singole Banche nazionali godano ancora di poteri di fatto non trascurabili per quanto riguarda il controllo della quantità di moneta; circostanza questa ulteriormente confermata dal fatto che i criteri applicati nel valutare la carta commerciale presentata al risconto sono tuttora diversi in ogni paese. La Bundesbank si vanta ad esempio di applicare criteri molto più rigorosi di altre banche centrali (potrebbe esservi un’allusione alla Banca d’Italia) nel valutare la solidità delle promesse di pagamento ammesse al risconto.
La svalutazione dell’euro ha favorito le esportazioni italiane verso l’area del dollaro; al tempo stesso, il tasso di inflazione tendenzialmente più alto in Italia rispetto alla media europea rappresenta, in regime di valuta unica, uno svantaggio all’interno dell’area europea. In passato, vi furono epoche nelle quali l’industria italiana era sempre pronta ad accettare ogni aumento di salario, per quanto elevato, richiesto dai sindacati. La ragione di questo atteggiamento accomodante risiedeva nel fatto che le imprese sapevano di poter compensare l’aumento dei salari con un aumento dei prezzi di vendita. L’intera operazione era resa possibile dalle autorità monetarie, pronte ad accordare alle imprese il credito necessario per fare fronte a un monte salari accresciuto e disposte a lasciar slittare la lira rispetto alle altre valute in modo da evitare una perdita di competitività delle esportazioni. Oggi che la valuta europea è divenuta una valuta unica, mentre la fissazione del tasso di sconto è stata spostata dalle Banche centrali nazionali alla Bce, ogni aumento di salari, non potendo più essere compensato da un aumento dei prezzi e da una svalutazione della moneta nazionale, finisce con l’incidere immediatamente sui profitti. Gli aumenti di salario possono oggi essere compensati soltanto da aumenti corrispondenti della produttività, ottenuti grazie all’ingresso del progresso tecnico.
Questo dovrebbe essere l’obiettivo di una politica industriale corretta. L’industria italiana ha scelto viceversa una strada diversa e precisamente quella di puntare sulla compressione del costo del lavoro. Spostando la produzione dalla grande industria ai piccoli opifici decentrati, concordando con il sindacato una proliferazione di contratti di lavoro atipici, sviluppando l’impiego del lavoro irregolare e sommerso, l’industria italiana ha messo in atto altrettanti strumenti per aumentare la produttività e ridurre drasticamente il costo del lavoro.
Il vantaggio immediato di questa strategia è indiscutibile. Le conseguenze di lungo periodo sono molto più dubbie. Un’industria basata sui settori tradizionali, che sopravvive nella ricerca continua di una compressione del costo del lavoro, è destinata a perdere terreno nel mercato internazionale. Un numero crescente di paesi in via di sviluppo può contare su un costo del lavoro assai più basso di quello italiano e, infatti, l’industria di quei paesi sta guadagnando quote di mercato crescenti. La svalutazione dell’euro ha consentito di guadagnare competitività nell’area del dollaro; ma se, come a volte sembra debba accadere, la tendenza dovesse capovolgersi e l’euro riguadagnare terreno, questa compensazione parziale sarebbe destinata a scomparire.
La strategia della Banca centrale europea La svalutazione dell’euro, che essa sia dovuta alla debolezza dell’economia europea o al fatto che i mercati finanziari americani risultano più attraenti per i capitali speculativi, pone alla Bce problemi di non facile soluzione. Numerosi osservatori, nel commentare il declino dell’euro, non hanno risparmiato critiche alla Bce, accusata di non aver difeso la moneta europea con sufficiente energia. In realtà, si potrebbe discutere sul se la debolezza dell’euro sia dovuta a valutazioni negative dei mercati o sia tollerata dalla Bce per più concrete ragioni economiche.
Un rimedio immediato, volto a rafforzare il corso dell’euro, sarebbe quello di aumentare i tassi di interesse, nella speranza che, aumentando il rendimento dei titoli nell’area europea, le fughe di capitali verso l’area del dollaro vengano scoraggiate. In realtà, i tassi vigenti negli Stati Uniti si sono ridotti e, da oltre un anno, il tasso della Bce è stato più alto del tasso praticato dalla Riserva Federale; ma questo non ha esercitato alcun influsso tangibile sull’andamento del cambio fra euro e dollaro. Inoltre un aumento dei tassi praticato dalla Bce sarebbe fortemente criticato da molte parti: dalle imprese, che chiedono tassi di interesse miti per proteggere i profitti, dagli esportatori, che vedono con favore il deprezzamento dell’euro che favorisce le esportazioni, dai responsabili governativi, sempre tormentati dallo spettro del debito e dal timore di accrescere il disavanzo del bilancio pubblico, dagli studiosi, che sottolineano le conseguenze negative che tassi di interesse elevati producono sugli investimenti e sul livello di occupazione. Non si può escludere che siano state proprio motivazioni di questo genere a indurre la Bce ad aumentare il tasso di riferimento soltanto in misura ridotta: dal 3% iniziale fino al 4,75% nell’ottobre 2000 e, a partire dal maggio 2001, a ridurlo nuovamente fino a portarlo al 3,25 attuale.
Difficile immaginare quali potranno essere gli sviluppi futuri. Non si può evitare il sospetto che l’euro finisca col diventare una valuta strutturalmente debole, con circolazione prevalentemente locale. Nei secoli passati, il regime della doppia circolazione era accettato come normale: le monete auree (come il fiorino di Firenze o il ducato di Venezia) venivano usate nei grandi commerci ed erano la moneta degli scambi con l’estero, mentre le valute locali minori, esposte alla tosatura e alla svalutazione frequente, venivano usate per il pagamento dei salari e per il commercio al dettaglio (8). La coesistenza pacifica fra euro e dollaro potrebbe realizzarsi attraverso una divisione simile delle funzioni di ognuna delle due valute.
La posizione centrale del dollaro La svalutazione progressiva dell’euro rispetto al dollaro viene attribuita a cause diverse: il tasso di sviluppo più veloce degli Stati Uniti, che induce gli investitori a sperare in profitti crescenti, o i tassi di interesse più elevati vigenti nei mercati finanziari americani, che assicurano rendimenti più elevati ai capitali finanziari. In passato, le affermazioni ripetute del Governatore Duisenberg – che sottolineava il fatto che la Bce non avrebbe attuato una difesa a oltranza del corso dell’euro – non hanno fatto che incoraggiare i movimenti di capitali speculativi verso l’area del dollaro e provocare una progressiva svalutazione dell’euro.
Non bisogna dimenticare d’altro canto che la rivalutazione del dollaro aveva avuto inizio anche prima che l’euro venisse creato. Il cambio del dollaro rispetto al marco tedesco e allo yen giapponese aveva cominciato a crescere fin dal 1985 e la crisi asiatica del 1997 non aveva fatto che rafforzare questa tendenza. Per i paesi del Sud-est asiatico, che avevano legato la loro valuta al dollaro, questo movimento rappresentò una rivalutazione – non voluta – della propria valuta nazionale rispetto allo yen e alle valute europee. Una rivalutazione che raggiunse anche il 40% ed esercitò un inevitabile e grave influsso negativo sulle esportazioni dei paesi asiatici. Paesi che avevano visto le proprie esportazioni crescere anche del 20% all’anno, e insieme crescere il proprio reddito nazionale al 7-8% all’anno, si trovarono repentinamente messi fuori mercato. Il Fondo monetario internazionale intervenne con la prescrizione di liberalizzare totalmente i mercati dei cambi e consentire piena libertà nei movimenti di capitali. Un solo paese, la Malaysia, si rifiutò di applicare queste indicazioni e, in un momento successivo, l’allora direttore del Fondo, il francese Camdessus, riconobbe la fondatezza delle sue ragioni. In altri paesi, le fughe di capitali, ormai svincolate da ogni controllo, produssero svalutazioni violente delle monete nazionali (fino al 50% rispetto al dollaro, come fu il caso del won coreano o del bath tailandese). Quando tutti questi paesi, l’uno dopo l’altro, ebbero distaccata la propria valuta dal dollaro, imprese e banche che si trovavano gravemente indebitate in dollari videro improvvisamente raddoppiato l’onere del proprio debito espresso in valuta nazionale.
Questo fu l’inizio dei crolli di borsa e di fallimenti a catena. Grandi gruppi coreani come i gruppi Kia (autoveicoli) o Halla (cantieri) dichiararono lo stato di insolvenza. La svalutazione delle valute asiatiche, insieme allo stato di crisi di tanti gruppi industriali, aprì la strada all’ingresso di capitali stranieri, che si affrettarono ad acquistare imprese in crisi. In questa corsa, i paesi europei (Francia, Germania, Olanda) non furono da meno degli Stati Uniti. Tutto questo ebbe luogo con il compiacimento del Fondo monetario. In precedenza, molti paesi asiatici avevano posto limiti alla presenza di capitali stranieri, specie nelle industrie considerate strategiche. Ora, invece, il Fondo incoraggiava la presenza di capitali stranieri nell’industria nazionale, nella convinzione che questa fosse fonte di buona amministrazione e di efficienza produttiva. Perduta ogni possibilità di condurre una politica monetaria o industriale autonoma, i paesi asiatici sono divenuti un mercato fertile, aperto alle importazioni di prodotti statunitensi.
D’altro canto, non va sottovalutato il fatto che qualcosa sta cambiando nell’atteggiamento degli Stati Uniti rispetto all’euro. La forza del dollaro e la debolezza dell’euro, se giocano a favore delle esportazioni europee, comportano una perdita di competitività dell’industria statunitense. Non vi è da stupirsi se la bilancia commerciale degli Stati Uniti resti perennemente passiva. Inoltre, come molti fanno osservare, mentre in passato il disavanzo esterno andava di pari passo con un disavanzo nel bilancio del Governo federale (la così detta situazione dei disavanzi gemelli), oggi, dal momento che il bilancio del Governo federale chiude in attivo, rimane in vita il solo disavanzo esterno. Si dovrebbe dire quindi che il disavanzo esterno, non essendo più riconducibile alla spesa pubblica, è interamente dovuto al settore privato; e poiché i profitti delle imprese statunitensi non si sono annullati, il debito dovrebbe ricadere per intero sui consumatori. Ma, si chiedono alcuni osservatori, per quanto tempo le famiglie americane potranno continuare ad accrescere i propri debiti? È davvero possibile considerare questa situazione come stabile e capace di riprodursi indefinitamente nel tempo? Non pochi sarebbero inclini a dare a questi interrogativi una risposta negativa.
Negli Stati Uniti cominciano a comparire segni di insoddisfazione per questa svalutazione dell’euro, che alcuni iniziano a considerare come voluta e sleale. Qualcosa del genere si era manifestato nel 1993-94, quando gli Stati Uniti si trovarono di fronte a quella che veniva considerata una svalutazione competitiva dello yen, con conseguente invasione di merci giapponesi nei mercati americani. Anche oggi cominciano a comparire lamentele, da parte di imprese grandi e piccole. Potrebbe qui nascere un conflitto di interessi fra l’industria americana e quella europea. Vi è quindi da attendersi che, se qualcosa cambierà nella politica valutaria europea, questo avverrà più per pressioni provenienti dall’altra sponda dell’Atlantico che non per interesse diretto dei paesi europei. I segni di rivalutazione dell’euro, che cominciano a comparire sporadicamente, potrebbero allora segnare un’inversione di tendenza.
Dubbi e prospettive Le prospettive di ripresa dell’economia, ancora gravemente incerte, sono oggi il tema dominante del dibattito. Di fronte ad una produzione industriale che stenta a riprendere vigore, sembra evidente a molti che un intervento delle autorità economiche sarebbe necessario. La natura e le modalità di tale intervento sono peraltro più difficili da individuare.
Un rilancio della domanda globale sarebbe, secondo i canoni elementari della politica economica, la misura più immediata ed efficace. I limiti di una manovra simile sono peraltro altrettanto evidenti. Un aumento della domanda globale, realizzato nella sola economia italiana isolatamente presa, comporterebbe, attraverso un aumento corrispondente delle importazioni, un disavanzo della bilancia commerciale. Poiché l’Italia è ormai legata ai paesi europei in una valuta unica, il disavanzo si tradurrebbe in un indebitamento equivalente verso l’estero, che alla lunga non sarebbe sostenibile. Logica vorrebbe allora che interventi analoghi di rilancio della domanda venissero messi in atto da tutti i paesi europei con un’azione concorde per la ripresa dell’attività economica. Ma, come risulta ormai in modo indubitabile, un’azione comune su questo terreno incontra lo sbarramento irremovibile della Germania.
D’altro canto, la situazione italiana presenta alcune peculiarità che non possono essere ignorate. Mentre altrove la disoccupazione è fenomeno diffuso, nel nostro paese regioni caratterizzate da occupazione più che piena si contrappongono ormai nettamente a regioni afflitte da disoccupazione strutturale. L’Italia Nord-orientale ha ormai varcato i limiti della piena occupazione: gli imprenditori si sottraggono lavoratori gli uni con gli altri e alcuni sono costretti a rinunciare a progetti di espansione per mancanza di mano d’opera. Le possibilità di impiego sono ormai alla portata di tutti, al punto che i giovani, non resistendo alla tentazione del guadagno, abbandonano gli studi scolastici prima di averli portati a compimento, con grave pregiudizio della loro formazione personale e, a lungo andare, del paese in generale. Se non fosse per i lavoratori provenienti dai paesi extraeuropei, l’espansione avrebbe subito una battuta d’arresto già da tempo. In altre regioni, la disoccupazione è legata a problemi di ristrutturazione industriale: la crisi della Fiat è un esempio macroscopico del ridimensionamento di un’impresa, che porterà inevitabilmente con sé problemi gravi di disoccupazione locale. Il problema autentico della disoccupazione è tuttavia concentrato nel Mezzogiorno. Qui, come si è detto in precedenza, le prospettive di aumento dell’occupazione sono legate in misura crescente al decentramento proveniente da imprese del Nord.
Squilibri territoriali crescenti e rischi di arretramento dell’industria sul terreno tecnologico sono quindi i pericoli che incombono sulla struttura dell’economia italiana. E qui è fuor di luogo invocare i vincoli della spesa pubblica derivanti dal trattato di Maastricht o la perdita del governo della moneta derivante dall’Unione monetaria europea, dal momento che quello che occorre è un disegno di politica industriale, accompagnata da una politica di riequilibrio territoriale.

FONTE :http://www.larivistadelmanifesto.it/archivio/30/30A20020708.html
 L'economista Augusto Graziani sullo SME (9 novembre 1994) 
 "Pragmatismi, disciplina e saggezza convenzionale. L'economia italiana dagli anni '70 agli anni '90" organizzato dal Dipartimento di Economia Pubblica della Facolta' di Economia e Commercio dell'Università "La Sapienza" di Roma - 9 novembre 1994.Graziani spiega che, di fatto, nello SME era la Germania a svalutare il marco...
 “La Germania, intanto, altra incognita, dovrà decidere la condotta della sua politica valutaria. Fin ora aveva condotto una politica valutaria molto astuta caratterizzando lo SME con una stabilità dei cambi monetari, ma una continua oscillazione dei cambi reali. Noi siamo abituati a pensare al fatto che il marco in tutti questi anni, e ancora oggi, si sia continuamente rivalutato rispetto alle altre valute. Questo è certamente esatto in termini nominali, perché tutti i riallineamenti dello SME sono stati, in realtà, svalutazioni delle valute deboli e rivalutazioni del marco. Però, se guardiamo alla questione in termini reali, in realtà la cosa è capovolta. Il marco, rispetto alle altre monete europee, si è sempre andando svalutando perché la stabilità dei prezzi in Germania era tale, e viceversa il tasso di inflazione negli altri paesi era talmente alto che, tenendo conto dei rispettivi tassi d’inflazione, erano le altre valute, quelle dei paesi deboli, che si rivalutavano in termini reali rispetto al marco e il marco che si svalutava rispetto alle altre valute.(…)
Non solo rivalutazione reale del marco, ma anche, fin dal 1987, creazione di un’Europa a due velocità. Si crea un nocciolo europeo intorno alla Germania in cui abbiamo stabilità dei cambi, nominali e anche reali. L’Europa a due velocità, quindi, non è un problema che dobbiamo porci per l’avvenire, ma è un fatto che esiste già dal 1987. Intorno, una cintura di paesi deboli – Irlanda, Portogallo, Spagna, Italia, Grecia – rispetto ai quali, invece, il cambio reale fino al ’92 continua a cadere”.(…)continua a leggere dalla fonte

Audio completo qui:http://www.ecodellarete.net/code/xslt.aspx?p=65158

 

 CAMBIARE TUTTO PER NON CAMBIARE NIENTE

Una spregiudicata analisi
della politica economica del nostro Paese
Augusto Graziani
Manterrò le mie osservazioni al livello del commento ad eventi che mi sembrano degni di essere ripercorsi e ricostruiti dell’esperienza italiana di quest’ultimo decennio. Cercherò di fare una sorta di ricostruzione logica degli eventi, anche se, come tutte le ricostruzioni logiche, forse peccherà per mancanza di alcuni elementi interni.

Un punto di partenza di questa ricostruzione, forse, possiamo trovarlo in quello che, con un termine un tantino esagerato e drammatico, potremmo chiamare il capovolgimento della politica valutaria del nostro Paese nel 1979, l’anno dell’adesione al sistema monetario europeo.

Negli anni precedenti al ‘79, le autorità monetarie italiane avevano seguito la famosa linea della svalutazione differenziata, approfittando del regime di cambi flessibili (che tecnicamente consentiva questa manovra), cercando .di tenere la lira tendenzialmente svalutata rispetto all’area del marco, in maniera da favorire le esportazioni e cercando, invece, di ridurre la svalutazione nei confronti del dollaro, per ridurre il costo delle importazioni. Attraverso questa manovra del cambio, in quegli anni di cambi flessibili sul piano internazionale e di continua inflazione che le autorità sembravano disposte ad accordare, si era messa in moto una spirale di svalutazione e inflazione, di aumenti dei salari monetari, con probabile riduzione dei salari reali che, in fondo, favoriva gli esportatori e gli imprenditori in generale.

Dopo il ‘79, viceversa, con l’adesione al sistema monetario europeo, il rapporto di cambio con il marco doveva essere tenuto tendenzialmente stabile e quindi la politica valutaria si è mossa entro vincoli molto diversi. A partire dall’’80, poi, il dollaro, invece di svalutarsi rispetto al marco, aveva iniziato la sua corsa ascendente che è durata fino a poche settimane or sono.

In questo diverso contesto internazionale, però, anche le autorità italiane fanno scelte diverse. Se noi osserviamo i fatti come si sono svolti, ci accorgiamo che le autorità monetarie hanno cercato di tenere duro rispetto al marco, per cui la svalutazione della lira è stata molto inferiore rispetto al differenziale dei prezzi interni dei due Paesi e oggi la lira, in termini reali, si è rivalutata sul marco, in confronto al 1979. Viceversa, rispetto al dollaro, la lira si è svalutata come tutte le altre valute mondiali, ma si è svalutata ancora di più di quello che i prezzi monetari interni dei due Paesi non segnalassero; per cui attualmente la lira è sottovalutata rispetto al dollaro, a partire dallo stesso anno di riferimento.

Qual è il senso di questa politica? Non è, ovviamente, quello di ottenere degli scopi diretti, perché in questo modo si penalizzano le esportazioni verso l’area europea. E’ vero che si incoraggiano le esportazioni verso l’area del dollaro, però questa è un’area nella quale l’industria italiana stenta ancora ad entrare in massa, anche perché la rivalutazione del dollaro su tutte le altre valute, così come ha favorito gli esportatori italiani, ha favorito anche gli esportatori di altri paesi. Ne deriva che non c’è un vantaggio differenziale specifico portato unicamente e selettivamente all’economia italiana. Ne consegue che non ci sono elementi razionali diretti per questo capovolgimento della politica valutaria; ci sono tuttavia degli elementi razionali indiretti.

Forzare la ristrutturazione

È stata una dichiarazione ufficiale dell’allora Ministro del Tesoro Andreatta ad indicare una linea interpretativa, anche se non completa, di questo cambiamento di rotta.

Andreatta dichiarò che l’unico modo per stroncare l’inflazione in Italia era quello di tenere stabili i cambi esteri, in maniera che gli imprenditori non potessero più aumentare liberamente i prezzi interni comunque confidando su una susseguente svalutazione della lira per non perdere i mercati esteri. Bloccando il cambio estero, così come gli accordi del sistema monetario europeo consentivano od obbligavano a fare, gli imprenditori si sarebbero trovati costretti a stabilizzare anche i prezzi interni.

Veniva quindi annunciato un cambiamento nella politica valutaria, per utilizzare la politica valutaria come strumento di stabilizzazione monetaria interna. In realtà, forse, questa dichiarazione ufficiale di intenti non solo non era completa, ma non era nemmeno totalmente veritiera, perché noi oggi vediamo con grande chiarezza come è stata realizzata questa stabilizzazione rispetto al marco. Come dicevo prima, la lira si è svalutata rispetto al marco, in questi sei anni, molto meno di quello che i prezzi interni avrebbero dovuto imporre. Però la stabilizzazione interna della lira non si è avuta e il differenziale di inflazione fra Italia e Germania si è ridotto di qualche punto, ma non si è affatto annullato.

Allora è evidente che si voleva qualche cosa di diverso. Quello che si voleva era costringere gli imprenditori italiani in una sorta di morsa fra un cambio estero tendenzialmente stabile e un’inflazione interna minore di quella del decennio precedente (anche se il differenziale di inflazione fra Italia e Germania è tuttora molto sensibile), tale da obbligare gli imprenditori a una profonda, veloce e radicale manovra di ristrutturazione per aumentare la produttività del lavoro e riguadagnare, in termini di produttività, quello che gradualmente avrebbero perso in termini di competitività di prezzo. Questa manovra valutaria, che Andreatta aveva annunciato come strumento di politica monetaria interna, in realtà è stato lo strumento maggiore di politica industriale che le nostre autorità economiche hanno utilizzato negli ultimi 5 o 6 anni, a partire dal ‘79. La conseguenza è che nell’economia italiana anche l’inflazione ha cambiato aspetto e dobbiamo abituarci a pensare all’inflazione di oggi come a un fenomeno in parte diverso da quello degli anni ‘70. Negli anni ‘70 l’inflazione era in definitiva qualcosa di desiderato, sollecitato dalle imprese, perché l’inflazione consentiva di erodere continuamente i salari reali, veniva seguita puntualmente dalla svalutazione esterna, non danneggiava cioè dal lato dei mercati, facilitava i rapporti tra capitale e lavoro, non imponendo uno scontro diretto sui salari monetari. Le imprese, in definitiva, erano tendenzialmente inflazioniste. E, infatti, negli anni ‘70 la grande industria italiana non si opponeva mai ad aumenti del salario monetario. Il famoso accordo sul punto unico di contingenza, nel ‘75, fu raggiunto con la benedizione della grande industria, proprio perché in termini monetari, data la continua spirale salari-prezzi-cambi esteri, tutto era diventato soltanto una questione di registrazioni.

Oggi, viceversa, con la politica del cambio esterno stabile, specialmente nei confronti delle valute europee, l’atteggiamento degli imprenditori verso l’inflazione si è capovolto. Oggi l’aumento dei prezzi interni non può più essere trasferito prontamente in una svalutazione della lira e, quindi, si riflette immediatamente in una perdita di competitività sui mercati. La grande industria italiana ha immediatamente registrato questo capovolgimento della situazione e oggi il primo caposaldo della battaglia della grande industria è contrastare l’aumento dei salari monetari; e, quindi, abbiamo assistito all’attacco alla scala mobile, e a tutte le altre battaglie che ruotano intorno alla riduzione del costo del lavoro. L’inflazione anziché desiderata, è oggi un fenomeno al quale le imprese guardano con preoccupazione e per il quale cercano rimedi, come vedremo, in varie direzioni, sia nell’ambito del settore privato, sia nell’ambito del settore pubblico.

Il nuovo segno dell’inflazione

Che l’inflazione abbia cambiato non solo la sua funzione, se così possiamo dire, ma anche le sue fonti, è un dato conosciuto a tutti e, direi, da tutti accettato. Ormai nessuno attribuisce più l’inflazione alla spinta salariale; questa si è moderata, i costi del lavoro sono andati decrescendo, la conflittualità si è ridotta grandemente.

L’inflazione però, se è diventata un fenomeno sgradito alle imprese, è diventata, invece, in questi anni, un ingrediente essenziale della politica economica, perché proprio in questo accoppiamento di inflazione interna e stabilità del cambio consiste quella tenaglia di cui le autorità monetarie si servono per la politica industriale: cioè per obbligare le imprese a una rapida ristrutturazione.

Quindi non è più un’inflazione salariale; se vogliamo c’è una componente internazionale che proviene dall’aumento del corso del dollaro. Ma è anche un’inflazione finanziaria, e su questo ritornerò più in là, perché deriva anche dagli oneri finanziari crescenti; è anche un’inflazione di Stato, in parte, perché deriva dall’aumento continuo e regolare dei prezzi amministrati e dei prezzi controllati. E’ stato proprio il settore dei prezzi amministrati che, invece di effettuare un’opera di stabilizzazione, ha assunto un ruolo di leadership nell’aumento dei prezzi, in piena coerenza con questa impostazione dell’inflazione interna come arma di politica industriale. Come conseguenza si è avuta una ristrutturazione velocissima dell’industria italiana, con calo generale dell’occupazione e un calo ancora più veloce in quella che l’ISTAT chiama la “grande industria”; un aumento diffuso compensativo del settore sommerso (lavoro nero, lavoro grigio, lavoro informale, chiamiamolo come vogliamo), e un aumento compensativo anche dell’occupazione nel settore terziario; occupazione improduttiva, dovremmo chiamarla, dovuta ovviamente a ragioni di stabilità, di consenso. Fin qui ci muoviamo su un terreno noto e molte volte analizzato. E ovvio, però, che le conseguenze vanno anche più in là. Per quanto veloce, l’opera di ristrutturazione non è ancora arrivata a ricollocare l’industria italiana esportatrice nei mercati internazionali nella misura dovuta. La sopravvalutazione della lira nei mercati europei si fa sentire e i risultati si vedono nella bilancia commerciale, che è passiva. Le esportazioni sono costantemente al di sotto delle importazioni, c’è un disavanzo nella bilancia commerciale. Ma le autorità sanno benissimo che questo disavanzo è la conseguenza inevitabile della loro politica monetaria e quindi hanno, con grandissima flessibilità, effettuato un altro capovolgimento di politica monetaria, pienamente coerente con quello che ho detto prima. Hanno, cioè, deciso, ormai da diversi anni, di accettare il disavanzo nella bilancia commerciale ed hanno provveduto a compensarlo — non correggerlo, compensarlo — con un avanzo corrispondente nei movimenti di capitali. Questa è una vera rivoluzione nella politica delle autorità monetarie, perché tutti noi ricordiamo i discorsi che faceva il governatore Carli una decina di anni fa, quando nelle sue dichiarazioni (diciamo pure antisindacali, antisalariali) invocava la politica dei redditi.

Carli diceva: non illudiamoci sul fatto che un disavanzo nella bilancia commerciale possa forse essere compensato da un avanzo nei movimenti di capitali, perché questa è una linea di politica economica che noi, Banca d’Italia, non intendiamo seguire. Noi non riteniamo che la bilancia dei pagamenti debba compensarsi, pareggiarsi nel suo complesso, perché fare affidamento sulle importazioni di capitali è una mossa rischiosa, è sempre segno di un’economia malata, significa vivere a spese di altri Paesi, significa consumare a credito di altri. Per noi, autorità monetarie, la politica economica sana è quella di un pareggio nella bilancia commerciale. Noi dobbiamo pagare le merci che importiamo dall’estero con altre merci vendute, non dobbiamo consumare a credito.

Il mercato finanziario

Oggi, la politica della Banca d’Italia è radicalmente cambiata. Oggi, le autorità monetarie assumono come una conseguenza inevitabile il disavanzo nella bilancia commerciale e fanno una politica di tassi d’interesse elevati, proprio per attirare capitali dall’estero e per impedire fughe di capitali — le due cose convergono sullo stesso obiettivo — che compensano il disavanzo nei movimenti di merci.

L’Italia è diventata rapidamente uno dei Paesi più indebitati del mondo, certamente uno dei più indebitati dei Paesi industrializzati. Se questa sia una politica saggia o no. lo vedremo evidentemente negli anni futuri. Quello che, però, si può dire è che se l’Italia è riuscita in questa politica, diciamo pure ardita, di governare un disavanzo nei movimenti di merci e pilotare al tempo stesso un avanzo equivalente nei movimenti di capitali, questa operazione non può riuscire soltanto giocando di speculazione sui tassi d’interesse. Si può realizzare evidentemente solo nell’ambito di un consenso internazionale Tutti noi ricordiamo quando, una decina d’anni fa, le grandi banche internazionali avevano convenuto che l’Italia non fosse più un Paese degno di fiducia: esisteva un rischio Italia, non si facevano più prestiti all’Italia. Oggi il clima, diciamo pure il clima politico internazionale che circonda l’economia italiana, è totalmente cambiato. Con questa ondata di indebolimento del sindacato, di craxismo, di reaganismo (chiamiamolo come vogliamo), l’Italia è diventata un Paese per bene. È diventata un paese al quale si possono confidare i propri capitali finanziari e, quindi, è vero che, da un lato, le imprese italiane pubbliche e private vengono incoraggiate a cercare prestiti su mercati esteri; è vero che le banche italiane vengono incoraggiate ad indebitarsi verso le banche straniere; però è anche vero che tutte queste richieste di credito trovano all’estero dei finanziatori pronti e generosi. È altrettanto vero che i grandi istituti bancari del mondo occidentale sono lietissimi di aprire crediti al mondo finanziario italiano.

Quindi questa manovra non solo si muove entro una sua coerenza interna, ma si muove in un ambito di consenso internazionale, del quale le importazioni di capitali sono la prova più tangibile, al di là di tutte le manovre tecniche sui tassi d’interesse. Tuttavia, le manovre sui tassi d’interesse ci sono: l’Italia ha tassi di interesse elevatissimi. Io dicevo che il differenziale di inflazione con la Germania occidentale non si è ridotto di molto, però siccome la Germania occidentale ha quasi azzerato la sua inflazione (l’aumento dei prezzi all’ingrosso è quasi zero, o addirittura negativo, mi pare, in uno degli ultimi trimestri), in corrispondenza anche il tasso assoluto d’inflazione dell’economia italiana è caduto, ma questo non ha comportato nessuna caduta nei tassi d’interesse.

Quando gli imprenditori si lamentano di questi oneri finanziari eccessivi, la Banca d’Italia risponde inflessibile che questo è necessario per evitare fughe di capitali, ed ha ragione, perché sostiene la manovra di importazione di capitali. Ma il risultato è, evidentemente, che gli oneri finanziari sono diventati un grosso peso per le imprese.

Ma le nostre autorità monetarie hanno pensato anche a questo. Noi tutti ricordiamo che, anni addietro, quando vi era un’inflazione ancora più elevata e vi erano tassi d’interesse assai elevati, gli oneri finanziari avevano quasi annullato i profitti industriali. Alcuni si lamentavano molto di questa situazione, altri facevano osservare che, in fondo, il profitto era sempre lì, solo che gli imprenditori lo avevano fatto scomparire dalla tasca industriale e lo avevano fatto ricomparire nella tasca finanziaria; profitti magri per il settore industriale, profitti grassi per il settore finanziario, nessun motivo di preoccupazione. In sostanza: avere pieno il cassetto di destra o quello di sinistra non sposta molto la situazione del grande capitale.

Imprese e disavanzo pubblico

Però, negli anni successivi, dopo il ‘79, si è fatto qualche cosa di più per aiutare il settore industriale a ripareggiare i propri conti con le banche, per ovviare al fatto che, ridottasi l’inflazione, i tassi d’interesse non sono caduti in maniera proporzionale.

Dal punto di vista finanziario avremmo dovuto aspettarci un peggioramento della posizione delle imprese industriali, perché, appunto, i tassi d’interesse reali sono molto più alti oggi di quello che non fossero dieci anni fa. E allora come si spiega il fatto che, invece, l’industria italiana ha ripareggiato i propri conti e non è più gravemente indebitata verso il settore bancario? Lo si spiega proprio con il disavanzo del settore pubblico.

Il settore pubblico, con manovra provvida, ha gestito i propri conti in enorme e crescente disavanzo, come sappiamo; questa è una delle cose più note, più dibattute, più deprecate sulla scena economica e politica del nostro Paese. Ma quando il settore pubblico gestisce il proprio bilancio in disavanzo, quale che sia la destinazione della spesa, cosa che adesso è difficile da conoscere ed ancor più difficile da giudicare, c’è comunque un effetto monetario immediato in quanto attraverso il disavanzo del settore pubblico viene immessa nel sistema economico una liquidità tutta particolare, una liquidità, cioè, che per le imprese non comporta il ricorso al sistema delle banche.

Se il settore pubblico viene gestito in pareggio, e cioè la spesa pubblica è coperta con le imposte, il settore pubblico non aggiunge e non toglie una lira di liquidità, si limita a prendere da una parte e a spendere dall’altra; le imprese ottengono liquidità aggiuntiva soltanto dal settore bancario con il conseguente indebitamento. Quando invece c’è un disavanzo nel settore pubblico, finalmente è lo Stato che s’indebita verso la Banca Centrale, con un allargamento della base monetaria, o si indebita verso i risparmiatori, aumentando la velocità di circolazione della moneta.

Ma in entrambi i casi le imprese ottengono flussi di liquidità che per loro non sono un debito, liquidità sulla quale non devono pagare interessi. È stato proprio il disavanzo del settore pubblico che ha riequilibrato i conti del settore industriale verso il settore finanziario.

Si parla molto del disavanzo nel settore pubblico e si osserva che questa offerta continua di titoli sui mercati finanziari, questo rastrellare di continuo liquidità dai risparmiatori per convogliarla verso i titoli pubblici e le casse dello Stato avrebbe spiazzato le imprese italiane dal mercato finanziario. Si osserva inoltre che con un’offerta di titoli pubblici a tassi d’interesse così vantaggiosi, le imprese industriali si sarebbero trovate nell’impossibilità di competere con la conseguenza che se non riuscissero più a finanziarsi sul mercato, sarebbero state spiazzate. Sarà anche vero, ma è irrilevante, perché con l’immissione di liquidità derivante dal disavanzo dello Stato le imprese realizzano profitti tali per cui non hanno più alcun bisogno di ricorrere al mercato finanziario. Saranno state spiazzate dal mercato finanziario, ma sono rimpiazzate sul mercato delle merci, dove realizzano dei profitti tali che consentono un comodo autofinanziamento. Si è parlato giustamente di una crisi fiscale dello Stato. Questo è vero, però come il disavanzo della bilancia commerciale è un disavanzo voluto, così anche il disavanzo nel settore pubblico — non so dire se voluto o non voluto — certamente si armonizza in una manovra politica complessa e nel suo insieme coerente. E di questa crisi fiscale dello Stato, dobbiamo a questo punto dare un giudizio molto più circostanziato e qualificato. Se apriamo il giornale, noi leggiamo che il disavanzo nel settore pubblico è dovuto a un eccesso di spesa, al fatto che ci sia stata un’esplosione della spesa pubblica per sussidi, pensionamenti, cassa integrazione; altre forme di trasferimenti personali e che, quindi, è necessario ridurre la spesa pubblica proprio nel settore dei trasferimenti personali, per riequilibrare le finanze dello Stato. Si è dato troppo al cittadino utente-consumatore e adesso basta: tagliamo sulle scuole, tagliamo sulle università, tagliamo sulla sanità, tagliamo su tutto quello che si può tagliare: sono le spese che vanno tagliate. Vorrei osservare che certamente per il cittadino utente, consumatore, sussidiato, beneficiato, quello che conta è il livello della spesa pubblica. Quando però la spesa pubblica viene gestita in disavanzo, come avviene negli ultimi anni dell’economia italiana, c’è un altro beneficiario al di là del consumatore, pensionato, assistito, e questo è il settore industriale, per le ragioni che dicevo prima. Quindi, il disavanzo del settore pubblico italiano ha svolto la sua funzione, anche e soprattutto, nei confronti del settore industriale. Se parliamo di settori che hanno tratto vantaggi dal livello della spesa pubblica e dal fatto che essa sia stata gestita in disavanzo, dobbiamo ricordarci che il primo ad essere stato avvantaggiato è il settore industriale, ed è per questa ragione che i progetti di riequilibrare il disavanzo, eliminare, ridurre, rientrare, come si dice oggi, dal disavanzo del settore pubblico, sono progetti che riscuotono sicuramente l’approvazione dell’uomo della strada, perché un debito è sempre una cosa negativa, ma in definitiva non fanno grande presa sul settore industriale, che è il più interessato.

La disoccupazione selettiva

Questa esplosione del disavanzo e della spesa è stata utilizzata con sagacia, come dicevo prima, e non solo ha avuto l’effetto finanziario di rimettere a posto i conti delle imprese, ma evidentemente è stata utilizzata anche per una serie di assunzioni nelle pubbliche amministrazioni, per allentare ed alleviare la situazione del mercato del lavoro, che altrimenti sarebbe stata molto più pesante. Infatti se noi andiamo a guardare il bilancio complessivo del mercato del lavoro, ci accorgiamo di un’anomalia, a prima vista, che distingue il mercato del lavoro italiano da quello degli altri Paesi. Ci accorgiamo infatti che l’Italia, pur essendo il Paese che aveva l’industria più arretrata e bisognosa di ristrutturazione, il paese che ha un disavanzo nei conti con l’estero da far rizzare i capelli, il Paese che ha un disavanzo nel settore pubblico che toglie il sonno e l’appetito ai nostri Ministri delle Finanze e del Tesoro, tuttavia è il Paese che in fondo ha meno disoccupazione complessiva di altri Paesi europei.

L’Italia ha concentrato la sua disoccupazione nel settore industriale, l’ha ultraconcentrata nel settore della grande industria, ma se facciamo la somma di tutti i settori e ci mettiamo anche il terziario, e consideriamo occupati tutti quelli che percepiscono uno stipendio, l’Italia ha più occupati, in totale, di quelli che aveva nel 1979 e non ha avuto la brusca ondata di disoccupazione che, invece, ha avuto la Gran Bretagna e, in parte, anche la Francia. Ma si tratta ancora una volta di una conseguenza dell’intera manovra, perché proprio questo aumento del disavanzo nel settore pubblico ha consentito di fare, in sostanza, questa politica di occupazione improduttiva e di consenso, che ha alleviato la situazione nel mercato del lavoro.

Tuttavia, dobbiamo chiederci a che cosa conduce l’insieme di questa manovra; perché se è vero che conduce ad una profonda ristrutturazione nell’industria e ad un grado di disoccupazione, tutto sommato, tollerabile, però conduce a una trasformazione profonda nella struttura del mercato del lavoro: sempre meno occupati in attività produttive e sempre più occupati in altre due direzioni. O nel lavoro nero, disperso e frammentato — i cosiddetti lavoratori indipendenti — oppure nel lavoro improduttivo, nel settore terziario, dei servizi, banche, assicurazioni, studi commerciali, consulenti fiscali, aziendali e così via.

Allora è evidente che dal punto di vista della struttura occupazionale l’economia italiana sta facendo dei passi indietro, perché si carica sempre di più, da un lato, di lavoratori non protetti, e quindi di un settore che socialmente è inaccettabile, e dall’altro di lavoratori improduttivi, che sul piano normativo e del trattamento sono privilegiati, ma nel quadro dell’economia nazionale sono comunque un peso improduttivo.

Aggiornamento o innovazione?

Qual è allora la strada che si può individuare per contrastare questo processo? E ovvio che la via di uscita viene indicata concordemente da tutti proprio nella innovazione tecnologica, nel progresso, che consentirebbe di ricollocare l’industria italiana nel mercato internazionale e, per questa via, consentirebbe la ripresa. Io vorrei, anche senza averne la competenza, e quindi soltanto con lo scopo di formulare dei punti interrogativi, chiedermi o chiedervi in che cosa consiste effettivamente questo processo di ristrutturazione, di innovazione tecnologica che l’industria italiana ha accelerato negli ultimi anni e si propone di continuare negli anni a venire.

Perché io ho l’impressione che qui ci sia, non voglio dire una confusione di concetti, perché sarebbe offensivo, ma certamente una sottile dissolvenza di definizioni fra due fenomeni che, viceversa, sono diversi. L’uno è quello del semplice aggiornamento tecnologico. Aggiornamento tecnologico vuol dire comprare i macchinari più avanzati. L’aggiornamento tecnologico è quello che faccio io se butto via questo vecchio orologio a molla di 25 anni fa e lo sostituisco con un moderno orologio al quarzo. Eccomi aggiornato, in materia di misurazione del tempo. L’aggiornamento è quello che certamente l’industria italiana sta facendo, sostituendo macchinari, comprando macchinari dai fabbricanti più aggiornati e, quindi, presentandosi sui mercati con un equipaggiamento e una attrezzatura, diciamo pure, d’avanguardia. L’aggiornamento tecnologico, però, non conferisce alcuna priorità nei mercati internazionali, perché l’aggiornamento tecnologico è accessibile a tutti. Chiunque si può aggiornare dall’oggi al domani, buttando una linea di montaggio nella spazzatura e facendone venire una nuova, non so se dagli Stati Uniti, o dalla Germania o dai Giappone, questo lo sceglierà lui. Certamente in tal modo può ridurre i suoi costi, può avere un po’ di respiro, ma non gli dà alcuna priorità nei mercati internazionali, perché lo stesso aggiornamento, come lo ha fatto lui, lo possono fare e lo stanno facendo tutti gli altri. La vera priorità nei mercati internazionali, quella che davvero rappresenterebbe una via di uscita, consiste invece in un’operazione di tutt’altra natura, che è l’innovazione. Non sostituire i propri macchinari comprandone altri più aggiornati, ma farsi autori di nuove tecnologie; e su questo l’industria italiana non è stata altrettanto pronta. È vero che esistono alcuni settori dell’industria meccanica i cui macchinari vengono ordinati da tutto il mondo; è vero che esistono alcuni comparti, non so se dell’aeronautica o di altri settori, in cui l’industria italiana vanta alcune priorità. Ma queste, alcune isole di progresso tecnologico non caratterizzano la situazione normale dell’industria italiana. E quello che mi preoccupa è il sospetto che questa enorme manovra di ristrutturazione, che ha gettato fuori dalle fabbriche decine di migliaia di lavoratori, non consista, in realtà, in un processo che conduce a un’innovazione tecnologica autonoma, ma che si tratti soltanto di una normale manovra di aggiornamento che, come tale, è una manovra perpetua, perché l’aggiornamento è qualcosa di perpetuo: si deve fare tutti i giorni, perché tutti lo fanno tutti i giorni. L’innovazione dà luogo, evidentemente, a posizioni di mercato completamente diverse. Chi dispone di un prodotto suo o di un metodo di produzione suo, può vendere, finché non viene imitato, il suo prodotto in regime di monopolio. E vi sono mille trucchi per prolungare questo monopolio nel tempo. Inoltre l’innovazione si autoperpetua, si autogenera, ed è evidente che le industrie dei Paesi leader si affermano nei mercati internazionali proprio perché chi è portatore di un prodotto nuovo non ha problemi di prezzo, è lui che impone il prezzo. Se la debolezza dell’industria italiana è proprio nel settore dell’innovazione e se in questa direzione l’industria italiana non ha fatto quegli sforzi capillari e a tappeto che avrebbe dovuto fare, è chiaro che i problemi si ripropongono. Avremo continuamente il problema dell’aggiornamento, continuamente il problema della ristrutturazione, continuamente il problema dei licenziamenti e dell’alleggerimento degli organici di lavoro.
FONTE: http://www.criticamente.com/economia/economia_politica/Graziani_Augusto_-_Cambiare_tutto_per_non_cambiare_niente.htm
 

IL MITO DELLA GLOBALIZZAZIONE di Augusto Graziani

 Purtroppo, l'esperienza mostra che questo preteso processo di convergenza, almeno fino a questo momento, non ha avuto luogo, al punto che vi sono studiosi che, nel descrivere il nuovo assetto dell'economia globalizzata, hanno parlato di “globalizzazione della povertà”.

Per quanto possa apparire paradossale, anche il progresso tecnologico può contribuire ad accentuare le distanze. Nell'era in cui le informazioni e le comunicazioni circolano in rete e una massa crescente di notizie è accessibile soltanto attraverso i canali telematici, il solo fatto di non possedere un computer può dare luogo a un autentico isolamento (in passato, per trovarsi in situazioni del genere, bisognava essere addirittura incapaci di leggere i giornali o di intrattenere una corrispondenza). Crescono dunque le disuguaglianze fra paesi e crescono le disuguaglianze fra redditi personali. In Italia, dopo l'abolizione della scala mobile nel 1992, si sono accresciute le distanze fra redditi da lavoro e redditi di impresa. Nei paesi in via di sviluppo, lo sfruttamento del lavoro minorile cresce di pari passo con lo sviluppo delle produzioni industriali.

In questa epoca di grandi migrazioni, le differenze di reddito tendono a coincidere con differenze di etnie. La corrispondenza fra divario etnico e divario economico è sempre esistita in molti paesi; ma oggi, nei paesi avanzati, gli immigrati che appartengono a un'etnia diversa sono oggetto di sguardi diffidenti, se non ostili. L'atteggiamento negativo nei confronti dell'immigrazione è stato denominato “ideologia localistica”, o nei casi più esasperati “ideologia fondamentalistica”. Si tratta di un'ideologia pervasa da una profonda ambiguità. Da un lato l'immigrato viene utilizzato come mano d'opera a basso costo: l'immigrazione viene infatti auspicata e non mancano imprenditori pronti ad affermare che un arresto dell'immigrazione significherebbe blocco dello sviluppo produttivo. D'altro canto, il regime di regolarizzazione dell'immigrato viene reso sempre più difficile, quasi lo scopo non dichiarato fosse quello di tenere l'immigrato costantemente sospeso fra l'accoglienza e l'espulsione; situazione questa che rende ovviamente più facile lo sfruttamento. La così detta ideologia localistica, più che essere una mera ideologia, rivela dunque la sua natura di manovra astutamente interessata.

Oggi la grande industria può frammentare il ciclo produttivo in una molteplicità di fasi distinte, collocare ciascuna in un ambito geografico differente a seconda della convenienza, procedere al montaggio del prodotto finito in un luogo ancora diverso, il tutto concentrando le attività direttive (elaborazione tecnologica, progettazione, finanza, mercati) là dove l'impresa ha la sua sede centrale. Si calcola che le grandi compagnie multinazionali abbiano ormai fra il 70 e il 90% dei dipendenti fuori del paese di origine. Come è stato fatto notare, l'etichetta “made in Italy” o “made in France”, che ancora leggiamo sui prodotti, va perdendo rapidamente di significato. Il risultato di questo insieme di cambiamenti è che il mondo che ci troviamo dinanzi è caratterizzato sempre più da frammentazione produttiva e da integrazione finanziaria.

È evidente d'altro canto che questa strategia complessa risulta possibile a patto di poter contare anche sulla piena libertà nei movimenti di merci e di capitali finanziari. Le grandi multinazionali, così come hanno bisogno di utilizzare la forza lavoro là dove essa costa meno, devono anche poter attingere capitali finanziari nei mercati più convenienti, senza che gli Stati risucchino la finanza disponibile per coprire il disavanzo pubblico. Per consentire alla grande impresa di mettere in atto pienamente la propria strategia mondiale occorre quindi anche portare il bilancio pubblico al pareggio e ridimensionare drasticamente la presenza dello Stato nei mercati finanziari.

Un aspetto positivo di questi rivolgimenti merita di essere citato. Al giorno d'oggi, grazie ai progressi delle comunicazioni e delle tecniche di gestione, affinché un paese venga preso in considerazione per un nuovo insediamento industriale, non occorre che esso presenti vantaggi comparativi per l'intero processo produttivo: è sufficiente che risulti conveniente installarvi la produzione di un singolo pezzo o il trasferimento di una fase specifica della produzione. In questa nuova situazione, la capacità organizzativa richiesta diventa molto minore, così come perde valore l'ampiezza del mercato interno che quel paese può offrire; restano elemento determinante i soli costi di produzione.

D'altro canto, non mancano i riflessi negativi. Non si tratta infatti di una semplice ristrutturazione tecnica, ma di una autentica modificazione nei rapporti di potere. Cresce la frammentazione della classe lavoratrice, che perde inesorabilmente forza organizzativa e rivendicativa. Si rafforza invece il potere della grande impresa, e non soltanto nei confronti del sindacato ma anche e soprattutto nei confronti degli Stati. La grande impresa dispone infatti di una autentica capacità di ricatto: se le sue richieste vengono respinte, nulla le impedisce di dichiarare lo stato di crisi e minacciare una ventata di licenziamenti. In passato l'arma della serrata veniva utilizzata nei confronti del sindacato: oggi la libertà nei movimenti di capitale permette di far balenare l'intenzione radicale di trasferire l'intera attività all'estero. Minacce simili vengono utilizzate direttamente nei confronti delle autorità di governo, al fine di ottenere i sussidi necessari e comunque la linea di politica economica più confacente alla formazione del profitto.

Il potere dell'impresa viene consolidato nell'opinione pubblica grazie a una accurata campagna di persuasione. Si diffonde così l'idea che l'intervento pubblico, in qualsiasi forma, risponda unicamente a interessi di parte e che, essendo di per sé antieconomico e dissipatore di ricchezze, si ritorca contro la collettività in generale. In tal modo, il cittadino assiste con favore alla soppressione della programmazione economica, alla scomparsa dell'impresa pubblica, alla piena libertà di azione concessa all'impresa privata in nome della sbandierata politica di “deregulation”. Sembra quasi che anche l'osservatore più consapevole e politicamente sensibile stenti ad accorgersi che la soppressione di ogni regola equivale a una delega in bianco concessa al privato per prendere decisioni che investono la struttura produttiva, e quindi anche sociale, del paese. Un critico acuto del capitalismo contemporaneo, Giacomo Becattini, ha osservato di recente che, mentre vorrebbero farci credere che il libero mercato sia retto dalla mano invisibile di cui parlava Adamo Smith, in realtà la pretesa mano invisibile è sempre la mano di qualcuno che ha un nome e un cognome.

Più stupefacente è che altrettanto favore accompagni la riduzione della presenza pubblica anche dei settori più delicati, quali l'istruzione, la sanità, i trasporti. Viene così dimenticata l'idea stessa che esiste un nucleo di beni essenziali che, per elementari esigenze di eguaglianza, non possono essere messi a disposizione di quei soli consumatori che sono in grado di acquistarli a prezzi di mercato, ma devono essere assicurati in misura uguale a tutti i cittadini. Persino gli economisti di mestiere, dimenticano che in questi settori (si pensi alla scuola o agli ospedali) il cittadino, fino ai limiti del suo reddito, è disposto a pagare qualsiasi prezzo pur di procurarsi i beni di cui avverte il bisogno: e che la presenza di quella che in termini tecnici viene detta “domanda rigida”, favorisce la formazione di posizioni monopolistiche e di profitti elevati.

Come riconoscono autorevoli sociologi, il potere crescente del privato rispetto al pubblico conduce a formare una sorta di élite privilegiata, in grado di decidere dei propri profitti e dei destini della classe lavoratrice: assetto questo che ci allontana sempre più dall'ideale di una società democratica.



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